Arrivo a Watamu 31.01.19
Oggi festa di San Geminiano con Modena nella neve e noi qui a Watamu in costume da bagno immersi nell’umidità dell’Oceano Indiano dalle spiagge bianchissime e gli abitanti scurissimi.
Qui i nativi ci chiamano ” le mozzarelle” e ci parlano in italiano eppure questo non mi fa sentire a casa come è successo a Nairobi.
La dimensione di Watamu è quella di un turismo che non mi è consono anche se condivido la necessità di un riposo dopo un’esperienza così forte come quella con le mamme del Baba Dogo Health Center. Anche l’ incontro con Angelo della ONG “l’Africachiama ” o quello con Padre Kizzito comboniano della Shalom House che si occupano dei ragazzi di strada che vivono degli slums mi ha mostrato una forza e un impegno sia dei volontari sia dei kenioti che mi fa ben sperare nella possibilità di un mondo migliore. Ascoltando la notizia di altre 140 o più persone morte in mare alla ricerca di una vita meno tragica, di fronte all’ottusita dei governi europei che si ostinano a parlare di numeri e non di persone mi cresce la disperazione e un senso di impotenza. Qui in Kenya vedere che la.gente pur nella povertà non si perde d’animo, non si arrende ed è disposta a fare di tutto pur di sopravvivere mi fa pensare che, nonostante tutto, ce la possiamo fare se manterremo il cuore aperto insieme alle frontiere. Vorrei ripetere a Salvini e a quanti la pensano come lui le parole che qui a Watamu mi ha detto un nostro “accompagnatore turistico ” mostrandomi i sandali di cuoio che si era fatto da sé con l’aiuto della madre e una statua di legno che aveva scolpito e che voleva vendermi:” È la fame che ci fa lavorare e imparare a fare le cose”.
Queste parole me le porterò in Italia scolpite nel cuore.
Gabriella