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IL PIACERE DI ESPRIMERSI NELLA VITA COME NELL’ARTE

Pubblicato il . Sezione: Testimonianze

Il giorno in cui mi iscrissi al mio primo stage con Maddalena Monari,cinque anni fa, difficilmente avrei potuto immaginare quanto questaesperienza avrebbe influito nella mia vita, nel rapporto con gli altrie nella mia professione.Soffrivo di frequenti blocchi alla zona lombare, e certamente laposizione che il lavoro mi imponeva per diverse ore al giorno – sonopianista, insegno Pianoforte al Conservatorio di Bologna e svolgoattività come concertista – non poteva giovare alla mia schiena.

Le cure a cui mi ero sottoposto fino ad allora non sembravano aver portatoalcun miglioramento significativo, e mi fu proposto dai medicil’intervento di “nucleoaspirazione” di uno dei dischi intervertebrali:fu una vera fortuna venire a conoscenza proprio allora del MetodoMonari, così potei evitare questa operazione che avrebbe ulteriormenteridotto l’elasticità già compromessa della mia colonna vertebrale.Non ricordo di aver mai sofferto di dolori alla schiena fino al giornodel primo improvviso blocco, vero fulmine a ciel sereno, ma poi ilsuccedersi degli episodi pareva diventato incontrollabile, e nonriuscivo a trovare spiegazioni a quell’improvvisa sofferenza.Oggi invece mi sembra di poterla interpretare facilmente: i muscolidella mia schiena erano così irrigiditi e la loro sensibilità si eratanto affievolita che quasi non era possibile provare dolore, e solocol cedimento del disco questi segnali erano diventati troppo forti peressere ignorati.Il problema della rigidezza mi aveva sempre assillato anche nel corsodei miei studi pianistici, ed era l’evidente limite contro cui mi erosempre scontrato negli sport che praticavo da ragazzo; consapevole diciò, pur non immaginando cosa può nascondere in realtà ogni nostrarigidezza muscolare, ero sempre stato attento a cogliere ogni cosa chepensavo potesse essermi d’aiuto. Speravo quindi di poter avere dalMetodo Monari anche qualche beneficio per la mia professione, ma ancorpiù fui colpito da un’affermazione di Maddalena durante il nostro primocolloquio: «Abbiamo riscontrato che sciogliere le rigidezze muscolarifacilita la comunicazione tra le persone». Mi sembrò che avesse coltonel segno: mi ero sempre considerato introverso e tendenzialmentesolitario, e non mi sarebbe affatto dispiaciuto liberarmi, almeno inparte, di quelle sensazioni di insicurezza che accompagnavano quasiogni incontro con persone sconosciute, oppure del timore che spesso miimpediva di parlare a qualcuno con libertà e franchezza, quando nesentivo l’esigenza, o di altre mie croniche difficoltà. Ma potevasuccedere davvero che lavorando i muscoli per curare un mal di schienasi verificasse tutto ciò?Non avevo mai sentito dire nulla di simile, però se avessefunzionato…Mi presentai quindi al mio primo stage, emozionato e un po’ timoroso,ma in fondo fiducioso. E fu davvero sorprendente la rapidità con cui ilmio corpo reagì in maniera positiva: ricordo ancora l’emozione ed ilgrande senso di libertà che ho provato al termine della prima giornatadi stage, scoprendo di poter flettere la schiena più di quantoricordavo di fare durante le lezioni di ginnastica ai tempi del liceo.Era bastato poco, in fondo, per ridare elasticità alla mia schiena, esentii che doveva essere proprio quello il modo giusto di trattare imuscoli secondo il loro bisogno.Dopo alcuni anni di lavoro con il Metodo Monari l’assetto del mio corposi è sensibilmente modificato: la lordosi lombare si è ridotta ed ilbacino è molto più mobile, le spalle si sono abbassate, liberate dalletensioni che le sollevavano, ed il collo è più lungo e diritto; i piedihanno ritrovato elasticità ed aderenza al terreno ed ho eliminato iplantari che portavo, come consigliato dell’ortopedico avendo il piede“cavo”, recuperando così un contatto naturale col suolo che mi haportato stabilità e sicurezza. Il rapporto col mio corpo èsostanzialmente mutato ed è notevolmente aumentata la mia capacità disentirmi, di percepire l’insorgere o il diminuire delle tensioni; gliepisodi di lombalgia sono diventati rari e di intensità assai minore, enonho più fatto ricorso a farmaci perché ho a disposizione mezzi molto piùefficaci per curarmi. Mi sono reso conto inoltre che questi mieiproblemi sono segnali, inviati dal corpo, di qualche disagio piùprofondo, e che quindi sarebbe tanto importante cercare di coglierne isignificati, di trarne delle indicazioni; non basta affrontarlicercando semplicemente di evitare il dolore, che è l’approccio,purtroppo, proposto spesso dalla odierna medicina: scegliere dieliminare il sintomo a qualunque costo, magari ricorrendo a potentiantidolorifici o ad operazioni chirurgiche, senza indagare percomprendere la causa che ha originato quel dolore. È un po’ comeviaggiare in auto ignorando la spia della riserva della benzina: non ècerto prudente, eppure noi tutti ignoriamo ogni giorno, forse senzavolerlo, molte spie del nostro corpo che è la macchina più preziosa.Proseguendo il lavoro sul mio corpo, la scioltezza nei movimentimigliorava e contemporaneamente vedevo effettivamente aumentare la miacapacità di esprimermi e la facilità nel comunicare; le correlazionitra rigidezze muscolari e possibilità di rapportarsi con gli altri sirivelavano via via in tutta la loro logica ed evidenza, aprendomiprospettive che non avrei mai potuto immaginare. Nel corso del lavoronon sono mancate scoperte dolorose legate al mio passato:sono riaffiorate antiche emozioni e paure, seppellite da molti anninelle contratture del mio corpo; ogni volta però prevaleva il piaceredella scoperta, o riscoperta, di una parte di me e della mia vita chepensavo inesistente o persa, ed invece poteva essere ancora vissuta congioia. Il rapporto con gli altri è diventato più immediato e ricco -quanta ricchezza perdiamo in noi stessi e negli altri, quante energiesprechiamo perché non riusciamo a vedere fino in fondo la nostra realtà- grazie ad un lavoro che era sempre graduale e mai indirizzatodirettamente ad uno specifico problema. I mutamenti avvenivano in uncerto modo da soli, non cercati esplicitamente, ma come rispondendo adun segreto richiamo di ordine ed armonia della persona; e ben prestoconfluirono anche nel mio esprimermi nella musica.Proprio la necessità di comunicare per mezzo del linguaggio dei suonimi portò diversi anni fa a scegliere la professione musicale: mi stavoavviando ormai verso la conclusione dello studio del pianoforte – loconsideravo il mio secondo studio, frequentando anche l’università – emi resi conto che raggiunto il diploma non avrei più avuto lapossibilità di dedicarmi a questa forma di espressione.Capii che non potevo rinunciarvi e feci quindi la mia scelta, dandoalla mia vita una direzione molto diversa da quella che parevaprogrammata ormai da diversi anni. Naturalmente questa scelta miimponeva di raggiungere un livello pianistico e di approfondimentomusicale superiori, e decisi di concentrarmi su questo studio – lavolontà di impegnarmi, che è un tratto essenziale di ogni pianista, nonmi è mai mancata – e di colmare le mie lacune, soprattutto quelletecniche legate spesso alla rigidezza di cui ero consapevole.Sentivo quanto esse limitassero le mie possibilità di espressione, enon credo sia stato un caso che fossi finito proprio al pianoforte, unostrumento al quale si sta seduti ed in un certo senso immobili. Inpassato avevo giocato a pallacanestro e pallavolo; invece il movimentosenza regole in uno spazio ampio e libero mi faceva sentire spessoimpacciato, bloccato, come mi succedeva per esempio nel ballo.Conoscevo ben poco la possibilità di esprimermi attraverso il corponella sua globalità, e in fondo ne ero imbarazzato, preferivo usaresoltanto una serie limitata di gesti e movimenti, come si può faresuonando il pianoforte.In questi anni di lavoro sul mio corpo, ho riflettuto su una certa“immobilità” caratteristica di diversi pianisti – io ora conosco benela mia – che è comunque necessaria nelle lunghe ore di studioquotidiano; nel tempo, essa è certamente destinata ad accrescersi se ilmancato esercizio dei movimenti estranei al suonare porta ad unprogressivo irrigidimento. Ogni strumentosi suona prevalentemente con alcune parti del corpo mentre altreassistono quasi immobili, e credo che ogni musicista abbia sceltoinconsciamente di suonare con le parti che nella storia dei suoi primianni di vita hanno subito minori traumi e limitazioni; così questehanno potuto mantenere al massimo la sensibilità e l’elasticità deimuscoli, e quindi la possibilità di esprimere e comunicare. Certamenteperò, il divario tra parti “vive” e parti “immobili” è di ostacolo aduna completa libertà di espressione, a quella “naturalezza” dellatecnica che consente di trasmettere emozioni mediante il linguaggio deisuoni.Questo concetto di “naturalezza” è ben chiaro nell’insegnamento dimolti grandi pianisti, nei cui scritti e trattati ho trovato preziosispunti per portare avanti la mia personale ricerca nello studio delpianoforte; deve esserci la massima armonia tra tutte le parti delcorpo che partecipano più o meno direttamente al suonare, perché sisuona con tutto il corpo: «Il corpo deve essere rilassato, e bisognautilizzare il peso di tutta la parte superiore del busto» (J. HorowitzConversazioni con Arrau, 1982). Alcuni intuirono addirittural’influenza che potevano avere parti apparentemente irrilevanti:«Qualunque contrazione nei muscoli della testa, non esclusi quellidella lingua, può turbare l’indipendenza nei movimenti del braccio e,quindi, in quelli delle dita» (A. Brugnoli Dinamica pianistica, cap.VI, 1915).Tutti poi sottolineano la necessità di equilibrio tra tecnica, emozioneed intelletto: solo dall’armonia tra la fisicità dell’interprete e lasua sfera psico-emotiva può nascere la migliore interpretazione.Claudio Arrau, come altri, estende addirittura al pianoforte questosenso di unitarietà dell’interprete: «Il concetto è di sentirsi unasola cosa con lo strumento».Ho sempre riflettuto a lungo su questi argomenti, alla ricerca dellamia armonia con il mio corpo ed il pianoforte, e le testimonianze deigrandi che parevano aver raggiunto questa armonia in modo perfettoerano per me un riferimento importante. L’esperienza fatta col MetodoMonari ha dato un senso differente alla mia ricerca, dandomi lapossibilità di sentire maggiormente cose su cui mi limitavoprevalentemente a ragionare.Credo che se questi grandi interpreti avessero conosciuto i principinati dalle scoperte di Françoise Mézières, e avessero potutosperimentarne su se stessi la validità, vi avrebbero trovato unaperfetta concordanza con molte loro affermazioni sulla tecnicapianistica. Tra le fonti d’informazione più preziose che ho trovato nelcorso dei miei studi, oltre all’insegnamento ricevuto da alcunimaestri, c’è la Dinamica pianistica di Attilio Brugnoli, un trattatocompilato intorno al 1915 che analizza con sorprendente meticolosità lameccanica dei gesti del pianista. Rimasi colpito dalla sua impostazionedavvero scientifica (ben due capitoli dedicati all’anatomia efisiologia, corredati da chiare tavole anatomiche!) e trovo che laconcezione pianistica esposta in seguito sia tra le più complete egeniali, in pieno accordo con i principi della fisica, e ancora oggiattualissima. Brugnoli dedica particolare attenzione ai problemi delrilassamento e della dissociazione (cioè indipendenza) muscolare, chefavoriscono la libertà del movimento e l’utilizzo del peso del braccioper ottenere una tecnica ed un suono “naturali”; giunge aconsiderazioni veramente acute, come quella già citata sui muscoli delcapo.Ora però sappiamo che è la rigidezza della catena muscolare posterioread agire come freno su tutti i nostri movimenti, e che è quindinecessario sbloccare ed allungare i muscoli della schiena per dare aldelicato e complesso sistema motorio delle dita la massimadissociazione, sensibilità e libertà nel movimento. Se Brugnoli avessepotuto sperimentare la validità di questi principi, allora ancorasconosciuti, sarebbe andato ben oltre al consigliare semplicemente aipianisti un “razionale ed intelligente allenamento… dove si rivelanole qualità intellettuali e fisiologiche dell’individuo”, comeraccomanda nel capitolo VI.Lavorandocol Metodo Monari, ad esempio, ho potuto ridurre notevolmente lecontratture facciali che non ero in grado di controllare mentreaffrontavo certe difficoltà pianistiche, migliorando così la fluiditàdei movimenti delle dita; proprio recentemente una mia allieva mi hadetto di aver notato come fosse diversa la mia mandibola, durante unconcerto, rispetto a ciò che ricordava alcuni anni fa.Questo cambiamento è avvenuto in modo naturale, senza forzature, esoprattutto lavorando senza il pianoforte; ricordo invece la mia penosasensazione di imbarazzo quando, durante una lezione, un maestro tentòdi risolvere questo mio problema imponendomi un autocontrollo che ebbecome unico effetto un ulteriore contrarsi di ogni muscolo.Un’altra importante scoperta riguarda l’uso delle contrazioni“isometriche”, in cui il movimento viene bloccato da un aiuto esterno,e si aumenta progressivamente il tono muscolare cercando di vincere laresistenza, ma senza mutare posizione; questo tipo di contrazionerinforza i muscoli allungandoli e aumentandone elasticità econtrattilità su tutta la lunghezza. Poiché i flessori delle dita fannoparte anch’essi, come i muscoli posteriori, di una catena (che siestende dalla spalla all’estremità delle dita stesse) essi non devonomai essere “rinforzati”, ma soltanto allungati per poter svilupparenaturalmente la loro forza. Viceversa quasi tutti i più noti esercizidi tecnica pianistica sono costituiti da contrazioni allo scopo dirinforzare i muscoli, causando inevitabilmente un loro accorciamento edirrigidimento (Brugnoli arriva addirittura a consigliare l’uso dipiccoli pesi per irrobustire i flessori delle dita). Si capisce allorache da questi principi deriva un modo completamente diverso diesercitarsi al pianoforte, e di affrontarne lo studio tecnico: poiché èsoprattutto l’allungamento muscolare a garantire maggiore velocità escioltezza nei movimenti, il miglioramento delle prestazioni non saràpiù rigidamente legato all’allenamento, cioè proporzionale al numero divolte che viene ripetuto ogni passaggio musicale. La necessità diripetere sarà quindi ridotta al minimo per apprendere i passaggi, e perverificarne la resa allo strumento: è chiaro che muovendosi in questadirezione lo studio diventa meno rigido e meccanico, ed inoltre assaipiù “economico”; lo stesso apprendimento è facilitato dalla maggioreduttilità e sensibilità dei muscoli più lunghi e morbidi.I risultati che si possono ottenere lavorando secondo questi criterisono talvolta sorprendenti, e inoltre è stato osservato che gli effettidell’allungamento sono più duraturi di quelli di un esercizioconvenzionale.Mi rendo conto però che questi concetti sono talmente rivoluzionari danon poter essere accettati facilmente; anche nell’allenamento di ognisport le fasi di potenziamento ed allungamentomuscolare avvengono separatamente ed entrambi secondo critericompletamente diversi. Lo stesso concetto di forza che è ben radicatoin tutta la nostra società è sempre associato ad altre idee, comeaggressività, durezza, fatica, piuttosto che all’elasticità, ed è bendifficile per noi credere che i muscoli possano diventare più fortisemplicemente allungandoli. Eppure il pianoforte è uno dei campi in cuil’associazione forza-elasticità ha sempre rappresentato l’ideale:«nell’esecuzione, tendere verso il raggiungimento di quella perfezionesuprema che è la forza leggera ed elastica, il muscolo dell’atletariunito alla grazia dell’efebo» (Alfredo Casella Il pianoforte, cap.VI, 1936).Ricordo ancora chiaramente l’impressione di armonia che mi venne,durante il mio primo stage, da un semplice gesto del braccio diMaddalena per esemplificare un lavoro di movimento; in un solo attimopensai alle migliaia di ore che avevo passato alla tastiera curando imovimenti di braccia e mani, eppure quell’armonia mi era sembratanuova: ogni parte si muoveva in perfetta sintonia con le altre,esprimendo libertà e naturalezza. Mi tornò alla mente anche un’altrafrase di Arrau che mi aveva tanto colpito per la sua efficacia:«bisogna considerareil braccio nella sua unità, non diviso in mano, polso, avambraccio,gomito: dovrebbe diventare come un serpente ».Molte affermazioni di questo grande artista, che ho sempre ammirato inmodo particolare, si erano impresse nella mia memoria, ed ho poiscoperto che erano in perfetta sintonia con il Metodo Monari.Parlando di una sua ideale scuola di musica, Arrau dice che avrebberiservato «un posto importante, nel programma generale, allapsicoanalisi ed alla danza»; mi sembrano ben chiare le sue finalità, edio credo che il Metodo Monari sia ancora più adatto ad aiutare unmusicista in queste direzioni. Come ho già detto, devo alla pratica diquesto metodo molte scoperte sulla mia vita interiore, sulle difficoltàe sulle barriere che porto in me (come ognuno di noi) e checostituiscono un ostacolo alla comunicazione con gli altri, compresaquella attraverso la musica; inoltre queste scoperte sono stateraggiunte senza una stretta dipendenza da un terapeuta, ascoltandosempre i suggerimenti che giungevano dal mio corpo, a volte con tantachiarezza da non lasciare alcun dubbio. Anche i lavori proposti alloscopo di ricercare l’armonia nel movimento possono essere ancora piùadatti della danza agli scopi di un musicista, perché sonocompletamente svincolati da schemi prefissati, e quindi menocondizionanti; inoltre vengono sempre eseguiti dopo il lavoro diallungamento muscolare, consentendo al corpo di liberare spontaneamentele sue innate possibilità motorie, ed esprimere sensazioni attraversoil movimento. Proprio liberando queste possibilità anche la tecnicapianistica può diventare davvero “naturale”, non solo quindi comerisultato di severi studi ed allenamento costante, ma soprattutto comespontanea espressione del corpo al fine di comunicare.Ricordo infine la curiosità che aveva suscitato in me Ralph Kirkpatrickquando lessi: «si può trovare un gesto interiore che controllil’assoluta unità dei movimenti. Il gesto più facile da eseguire è forseil cerchio, perché è completamente continuo … io chiedo spesso aimiei allievi di descrivere dei cerchi continui per acquisire il sensodi una assoluta continuità. Nell’uomo, ogni senso di continuità delgesto o del movimento deriva dal plesso solare, dal diaframma» cioè dalrespiro (R. Kirkpatrick L’interpretazione del Clavicembalo bentemperato,Par. 6.3). Ho poi scoperto che in diversi esercizi del Metodo Monari sidescrivono cerchi, e che molto spesso il diaframma è direttamentecoinvolto.L’esperienza fatta personalmente mi ha portato dunque a rivedere moltecose riguardo i miei metodi di studio e quindi d’insegnamento.Pur avendo frequentato scuole pianistiche scientificamente impostatesul concetto del suonare rilassati sfruttando il peso del braccio, misono accorto di qualche evidente contraddizione tra questa finalità edalcuni metodi di studio che praticavo, ed ho cominciato ad eliminaretutto ciò che poteva produrre accorciamento e rigidezza; ho continuatoinvece a lavorare per allungare i muscoli di schiena, spalle e braccia(oltre che di tutto il corpo, naturalmente) provando poi ad eseguireallo strumento con più naturalezza, e con minore ripetitività, imovimenti corretti. I risultati ottenuti mi hanno incoraggiato suquesta strada, perché ho constatato un sensibile aumento dellascioltezza e del coordinamento dei movimenti, e la possibilità, graziea schiena e spalle più rilassate, di scaricare meglio il peso dellebraccia sui tasti producendo così un suono più potente con minorsforzo. Mi sono convinto sempre di più della enorme utilità, se nondella necessità, che può avere per ogni pianista un lavoro dipreparazione sul corpo eseguito senza pianoforte, in una semplice saladotata per questo scopo di pavimento in moquette. Quale allievopianista non si è sentito raccomandare dall’insegnante di “tenere lespalle rilassate”? Eppure tutti ignorano che proprio quelle spallehanno memorizzato, fin dai primi giorni di vita, innumerevolicontrazioni ormai non più controllabili, ed hanno perso quellapossibilità di stare completamente sciolte e rilassate chesolo un lavoro di questo genere può restituire.A quarant’anni normalmente è molto difficile poter miglioraresensibilmente la propria tecnica strumentale, eppure posso affermareche il lavoro con il Metodo Monari ha portato un significativo aumentodella mia efficienza pianistica, ottenuto paradossalmente studiandomeno che in precedenza; ho sentito quindi con urgenza di voler metterea disposizione dei miei allievi un metodo così efficace.Dapprima inviai alcuni allievi presso il Centro Monari; una ragazza inparticolare soffriva di una forte tendinite ad entrambi i polsi che nonaveva risposto a cure di tipo tradizionale, costringendola ad una lungainterruzione degli studi. Il problema si risolse completamente conalcuni stages, ed il lavoro sul corpo entrò sempre di più nel suometodo di studio, consentendole progressi notevolissimi fino aconseguire il diploma con il massimo dei voti e la lode. Sentii allorache per dare organicità a questo lavoro era necessario che fossiproprio io a guidarlo integrandolo nello studio allo strumento, edecisi di partecipare al corso triennale di formazione tenuto daMaddalena Monari, che ora sto per concludere.Due anni fa ho potuto avviare a Vicenza, dove ho insegnato per diversianni presso il Conservatorio, un primo gruppo di lavoro con giovanimusicisti; quest’anno se ne è aggiunto un secondo a Bologna, doveinsegno attualmente. Già dopo pochi incontri non sono mancati risultatisignificativi da un punto di vista strumentale: alcuni allievi chehanno avuto modo di confrontare videoregistrazioni effettuate prima edopo tre sole giornate di lavoro, hanno notato quanto si fosseromodificate le spalle, più basse e sciolte, e come i movimenti dellebraccia fossero più liberi. In certi casi, poi, lo sblocco delletensioni delle spalle ha consentito di ottenere, con solo tre giornate,quello che non si era raggiunto nell’arco di mesi di normale studio.Un’allieva è stata in grado di eseguire alcuni faticosi studi diClementi basati su un continuo movimento di rotazione del braccio, chenon era riuscita a risolvere neppure con un allenamento molto gradualee metodico; il perdurare del movimento causava inevitabilmente doloreed irrigidimento delle braccia.Evidentemente le eccessive tensioni frenavano quel movimento rendendolodifficoltoso, ed è stato sufficiente allungare i muscoli della catenaposteriore perché esso potesse invece effettuarsi agevolmente.Oggi quindi propongo questo lavoro ad ogni mio allievo (che non siaancora troppo giovane): ho già potuto verificare su un campionesignificativo di pianisti che, oltre ad una maggiore scioltezza neimovimenti ed una qualità del suono più piena e bella, si ha spesso unmiglioramento ed una maggiore intensità nell’espressione musicale,certamente legata alla accresciuta capacità di sentire ed esprimersi.Anche se siamo soltanto all’inizio di una più ampia sperimentazione, hogià constatato che l’applicazione del Metodo Monari all’insegnamentodella musica dà ottimi risultati, e sarebbe di grande interesse poterloprovare anche su musicisti dotati di particolare talento, che credo nericaverebbero ugualmente preziosi vantaggi.Quasi sempre le attività di studio sono regolate dalle ferree normedella disciplina, e i pianisti sono in questo dei veri campioni; troppospesso il loro lavoro è affidato molto più a razionalità e a metodo chenon al proprio sentire, anche se in fondo sappiamo tutti che irisultati migliori si ottengono quando intuizione e naturalezza nontrovano ostacoli. È inevitabile che lo studio, soprattutto affrontatoin questo modo, comporti meccanicità e stress. Il lavoro con il MetodoMonari viceversa si porta avanti in un clima e con modalità cheriducono questo stress: favorisce il rilassamento e la circolazionedell’energia, si svolge talvolta come un semplice gioco e tuttavia ciconsente di sviluppare le nostre potenzialità ed accrescere sensibilitàed armonia, per poter anche migliorare le nostre prestazioni allatastiera. Tutto questo offre motivi per profonde riflessioni su comepotremmo affrontare nel modo migliore lo studio e gli impegni.Gerhart Oppitz è uno di quei pianisti (ben rari, a dire il vero…) chedichiarano poche ore di studio per mantenere un vastissimo repertorioad un livello esecutivo di primissimo ordine; afferma di studiare, dasempre, una o due ore al giorno, di non aver mai fatto esercizi (chenella didattica si raccomanda di eseguire quotidianamente!) e di poterstare anche tre settimane senza suonare non risentendone affattomuscolarmente: «ho avuto un’infanzia e una gioventù molto normali,studiavo un’ora al giorno il pianoforte e un’ora per la scuola e avevotempo per altre cose…» (da un’intervista per Piano Time).Purtroppo invece è molto più diffusa, anche tra i grandi, la figura delpianista che studia otto ore al giorno o più, e che non puòinterrompere il suo allenamento per non perdere in precisioneesecutiva.Personalmente credo che la “soluzione” che Oppitz può permettersigarantisca una vita migliore: chi non sarebbe felice di possedere nelsuo lavoro un simile rendimento? E credo anche che questo si riflettanelle sue interpretazioni al pianoforte.Il talento artistico e musicale è un fenomeno troppo complesso perpoter essere analizzato e ridotto in formulazioni qualsiasi, ma sonoconvinto che lavorare nella direzione del Metodo Monari dia a ciascunola possibilità di sviluppare appieno le sue potenzialità diautopercezione, di movimento e di comunicazione, in una parola lapropria armonia, per poter cancellare il più possibile quei confini tratecnica ed espressione che sono indefiniti quanto quelli tra corpo edemozioni. Un armonioso sviluppo delle capacità di sentire e di muoversiconsentono di far convergere sempre di più l’impegno nel realizzare conil piacere dell’esprimersi, nella vita come nell’arte.Credo che in una normale aula di Conservatorio non si possa svilupparetra insegnante ed allievi un rapporto come quello che si crea lavorandocon il Metodo Monari, e sono grato ai ragazzi che hanno accettatoquesto mio insolito invito a riunirsi per lavorare sul corpo prima ditrovarci insieme davanti al pianoforte. Suonare meglio non è certol’unico scopo: si raggiunge una migliore conoscenza, e si riducono glischermi tra insegnante e allievo, legati ai rispettivi ruoli, che tantevolte hanno solo l’effetto di trasformare in noia, o peggio insofferenza, la gioia dell’apprendere, del pieno sviluppo della propriacreatività e personalità. Quanto più insegnante e allievo sono uno afianco dell’altro nel lavoro, più facilmente può nascere ed accrescersiquel piacere di comunicare che favorisce l’espressione artistica;l’insegnante stesso ne trae molti stimoli positivi ed un notevolearricchimento. Questa esperienza da poco iniziata ha certamente portatoa me un rinnovato interesse ed entusiasmo per l’insegnamento, e credoabbia aperto ai miei allievi una nuova prospettiva per poter vivere piùpienamente e felicemente lo studio della musica, come ricerca dellapropria armonia.

Carlo Mazzoli

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