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LEI ERA LI’, DALLA MIA PARTE

Pubblicato il . Sezione: Testimonianze

Se ripenso a quel giorno di sette anni fa in cui varcai per la primavolta la soglia del Centro Monari, mi vengono i brividi dall’emozione,tanto nel profondo è mutata la mia vita: un nuovo corpo, nuove possibilità, un nuovo lavoro. Avevo letto una pubblicità e interessata giunsi a Bologna per il colloquio preliminare sapendo qualcosa di ginnastiche dolci e di antiginnastica ma ignorando completamente cosa significasse nella pratica il termine psicomotricità, affiancato allora al nome del Centro.

Ero comunque piena di fiducia e speranzosa di poter risolvereil problema che in quel periodo mi affliggeva, o almeno questo eraquello che mi suggeriva il mio intuito.Negli ultimi tempi provavo sempre più spesso un dolore profondo intutta la parte superiore sinistra del corpo, un invisibile cordololegava insieme il collo, la spalla, il seno fino al capezzolo e ilbraccio sinistro perdeva spesso forza e sensibilità.Dentro di me, in silenzio, avevo pensato anche al peggio ma non dicevoniente a nessuno, come se qualcosa di ineluttabile dovesse accadere, maera un segreto.Fin dall’età di dieci-undici anni soffrivo di una scoliosi dorsale acui si era presto aggiunta una cifosi e dieci anni dopo un’artrosilocalizzata in più punti. Col passare degli anni credevo che il mioandare avanti nonostante tutto, anche con qualche leggera crisidepressiva, la felice vita di coppia – che tanto aveva contribuito alraggiungimento del mio equilibrio – il successo negli studi, avesserosepolto il passato. E invece il mio corpo aveva accumulato una serie dimalesseri che non tardarono a farsi sentire: le spalle curve miprocuravano dolori, mi sentivo goffa, sentivo fitte lacinanti tra lescapole ogni qual volta provavo a portare in avanti le braccia,soffrivo di vertigini e nelle braccia e nelle gambe la muscolatura nonaveva tono; il professore di educazione fisica al liceo diceva che eracome se io non li avessi proprio i muscoli.Durante il colloquio Maddalena mi propose di fare uno stageresidenziale di una settimana e io accettai di slancio con moltoentusiasmo.Avevo parlato delle mie cose, anche le più intime, a una estranea comenon avevo mai fatto, ma mi ero sentita subito a mio agio, capita,accettata, rassicurata mentre raccontavo la mia storia, i miei dolori,lei era lì dalla mia parte. Il mio dolore non era stato giudicato unamalattia da dover curare. Non mi era stato promesso nulla, immediate esicure guarigioni, ma avrei potuto iniziare un lavoro su di me delquale io stessa avrei potuto decidere le tappe. Ed è stato propriocosì.Quando ripenso a questi anni di lavoro, che non è ancora finito, miviene in mente la sensazione provata durante le camminate in montagna.Il sentiero, che a guardarlo dal punto di partenza si perde subito allavista inerpicandosi ripidamente, si apre piano piano sotto i nostripassi e ci appare tutt’affatto diverso mentre lo si affronta con lagiusta andatura e con le pause necessarie che ci fanno assaporareappieno il piacere di farcela.Mi buttai nella prima settimana di lavoro con lo spirito di sempre,anche un po’ superficialmente, pensando di conoscere tutto del miopassato e fidando nella mia “naturale” estroversione. In fondo sitrattava di un piccolo gruppo di persone in confronto a quelli abituataa sostenere in quel momento per il mio lavoro. Parlare davanti apersone estranene non mi creava problemi né tantomeno toccare glialtri, almeno così pensavo. Ho compreso poi che il mio era sempre statoun modo di incoraggiarmi per non sentire la mia agitazionenell’affrontare l’altro.Già in quei primi giorni, mentre cercavo di seguire le indicazioni diquella voce così calda e profonda, sentii tutto il disagio di esserenel mio corpo, così rigido, compatto, stretto in una corazza che non lolasciava respirare. Sentii quanto fosse sospesa in aria la mia cassatoracica, che l’aria non era libera di circolare nel mio torace e nelmio ventre divisi da un legaccio che stringendo teneva così in alto,irraggiungibili le coste e il diaframma. Il respiro mi si strozzava ingola.Da piccola avevo in effetti rischiato di rimanere soffocata, miavevano salvata, ma la gola era sempre stato il mio punto debole.Era un bel dire «contraete il gluteo destro e poi rilassatelo» il miorestava fermo, immobile, sentivo la voglia di muoverlo ma eraimpossibile farlo. Allora la voce calda veniva in mio soccorso «Non èimportante quanto e come lo muovete, è importante inviare il comando».È avvenuto nei tempi necessari ai miei muscoli: il gluteo si è mosso econ esso il pube, il bacino, regalandomi col tempo la gioia di ballare.Io che non lo avevo mai fatto nell’adolescenza, che alle poche festecui partecipavo restavo seduta e da socievole e ridanciana diventavotriste e silenziosa sentendomi goffa, inadatta e brutta.Tornai a casa trasformata; le costole si erano abbassate grazieall’intenso lavoro, ma soprattutto grazie al clima di serenità efiducia instaurato nel gruppo, al piacere del riposo comune strettil’uno accanto all’altro dopo aver sentito il dolore “benefico” deimuscoli che si sciolgono. Per la prima volta non mi ero sentitagiudicata, e non avevo dovuto darmi da fare per essere accettata da ungruppo e soprattutto dalla “maestra”.In questi anni ho frequentato tanti stages sia con gruppi nuovi che conil “mio gruppo”, che è stato sostanzialmente lo stesso per alcunestagioni, provando sempre il piacere dell’incontro. Ho lavorato moltointensamente favorita anche dal fatto che ogni stage a Bologna era perme un “residenziale” in quanto lasciavo a casa preoccupazioni e impegnie in quei giorni facevo solo una cosa per me.Attraverso il lavoro sul corpo e il lavoro di relazione ho presoconfidenza con il mio corpo e con quello degli altri. È indescrivibilela gioia provata nel sentire che alcune parti del corpo di cui nonavevo alcuna percezione si potevano muovere e provare così la loroesistenza, la loro vitalità. Ho sentito cosa vuol dire provare piacerenel toccare un corpo senza invaderlo, senza fretta, nel rispetto delleproprie emozioni e di quelle altrui.Ho sentito con profondo dolore quanto mi era costato essere una personaestroversa, che apparentemente non aveva difficoltà a rapportarsi congli altri, quando mi ero dovuta sbattere nell’intento, che per me eradi vitale importartanza, che qualcuno si accorgesse di me e midimostrasse un po’ di affetto, quell’affetto e quell’amore che mi eranostati negati nei momenti in cui ne avevo più bisogno; mi ero svendutafino ad allora senza salvaguardare e rispettare il mio patrimonio diemozioni che finalmente stava riaffiorando.Tutto ciò insieme all’aver sentito nel più profondo dell’essere che ilmio storcermi era avvenuto sotto il peso di responsabilità che erano dialtri e di una fanciullezza non vissuta, e che altro non era stato senon la difesa che il mio fragile corpo aveva dovuto e saputo opporreper poter sopravvivere, mi hanno reso molto meno esigente con mestessa. Ho finalmente accettato l’idea di dare un po’ di tregua allamia esistenza che aveva fino ad allora sempre dovuto dimostrare difarcela da sola, di non avere bisogno di nessuno, perché di nessuno sipoteva fidare.Ho finalmente sentito quali erano i miei tempi scoprendo che lacognizione del tempo appartiene alla sfera emotiva e non a quellarazionale, che è servita solo a suddividerlo poiché sessanta secondisono diversi per ognuno di noi.Mia madre una volta, parlando degli inizi del suo matrimonio, mi haconfessato che non mi ha mai visto piccola, che aveva solo me e a me siera aggrappata per sopravvivere in un mondo che sentiva estraneo;subito dopo il matrimonio si era trasferita in un’altra città ed eracosì diversa da mio padre. Poi nacqui io, la sua àncora, laprimogenita, quella che poteva mettere tutto a posto, buona, brava,intelligente, generosa. Poi vennero altri figli… Ma ormai ero io chemi preoccupavo per i miei fratelli perché sentivo di dover lororisparmiare quello che di brutto era capitato a me, che avevo milleocchi, mille orecchie, sempre pronta a intervenire rapida in difesa, inappoggio. Nonostante tutto il mio darmi da fare, il vigilare, non sonostati risparmiatineanche a loro e per me è stato duro sopportare anche questo.Insieme a ciò l’invasione e la privazione di essere la prima: i bisognidegli altri che DEVONO venire prima dei tuoi “tu puoi capire”, “dallo alei che tu sei grande e lo sai che lei piange”. Daglielo, faglielo,mostraglielo, regalaglielo… A me che restava?La fuga nel sonno e nelle letture, il piacere nella trasgressione deldisordine e delle discolate concesse a chi in fondo è sempre così buonae brava. Il peso di una grande solitudine, il grande freddo, deibisogni congelati per non sentirli e la rabbia si lenivano di notte,quando nessuno vedeva, in un lungo pianto nel silenzio del mio letto emi sentivo estranea in quella famiglia dai cui membri ero così diversae pensavo di esserle stata affidata per necessità dalla mia verafamiglia. Preferivo sentirmi abbandonata piuttosto che nonamata.È indescrivibile a parole, la cappa di oppressione nella paura di farequalcosa di sbagliato che c’era nei nostri occhi di bambini, assente lagioia di vivere. Sempre imbronciati, magrissimi pur mangiando molto.Mia madre portò me e mia sorella – in quello che ricordo come un lungoviaggio in treno – a fare delle radiografie per vedere se eravamomalate, se c’era qualcosa che non andava. Oggi so, perché l’ho sentitotrattenuto nei miei muscoli, che mi mancava un nutrimento piùimportante del cibo, quel calore affettivo fatto di abbracci, baci,carezze e soprattutto del piacere di stare insieme in allegria eleggerezza.Finché quel corpo, tirato tra il dovere e il volere, costretto dallavergogna e dalla paura, ha ceduto e per sopravvivere si è storto. Conlo sviluppo immancabilmente è sopraggiunta la scoliosi: magrissima,alta e storta.Lo strazio emotivo della scoperta. Estate al mare, gli occhi di miopadre si appuntano sulla mia schiena, la chiamata a raccolta di miamadre con un tono che non lascia presagire nulla di buono, ma non socosa, lo sconcerto di trovare un difetto, una macchia, l’agitazione, lasabbia mi si apre sotto i piedi, lo stomaco ha un tuffo e immediatosopraggiunge il senso di colpa di non essere perfetta. Perché proprio ame che sono tanto brava?Qualsiasi evento che non scorreva nei binari di una normalità decisadai grandi e molto discontinua era vissuto con estrema, intensaagitazione emotiva; quella in cui sprofondava mia madre sotto lapressione e l’incalzare delle parole e degli sguardi di mio padre.Mi sono fatta carico anche di questo nell’intento di alleviare questapena.Con la scoperta della scoliosi è iniziata la solita trafila: visite,ginnastiche, busto. Ricordo di aver fatto impazzire il costruttore dicotanta aberrazione perché non mi andava mai bene, sentivo doloriovunque, ovunque mi premeva troppo. Non lo volevo.Imposi di portarlo solo a casa, mi vergognavo troppo, mi faceva male.Ben presto non lo misi più: troppa insofferenza, rabbia e disagio.La ginnastica correttiva invece bisognava farla, mi è stato risparmiatoil nuoto solo per impedimenti pratici. Mi tornano ancora in mente iricorrenti attacchi di mal di testa e la nausea all’ingresso dipalestre e centri fisioterapici. Smisi anche quella. Preferivo tenermiquella che in casa veniva chiamata “la gobba” e avere un corpo che nonmi piaceva.Quando, dopo aver tenuto il bastone sotto la colonna vertebrale, per untempo divenuto ben presto insopportabile, nel momento di toglierlosentii una fitta lancinante tra le scapole, la mia ferita riaperta mifece sprofondare nel dolore provato e accumulato in quegli anni. Unpianto dirotto mi scosse tra le braccia amorevoli di Maddalena. Provaisollievo nel sentire la schiena del compagno che respirava unita allamia. Trovai accoglienza, per poter lenire il dolore, nella mano che hatoccato con rispetto e amore la mia ferita nel lavoro di relazione cheseguì. E la mia schiena cessò di essere un ammasso informe; la partesinistra incominciò a uscire dalla “gobba” di tanti anni, le scapole simossero separatamente.Mi ero sempre occupata di tutti quelli che mi stavano intorno(fratelli, genitori, compagni di scuola, amici, insegnanti)finalmente potevo prendermi cura di me, chiedere aiuto senza sentirmiin colpa.Riscoprendo e unificando i pezzi del mio corpo iniziavo a trovare ilmio posto nel mondo.Non permetto più a nessuno di vivere la mia vita, sto ritrovando ilpiacere di fare cose che il senso del dovere mi aveva distrutto. Ilpiacere di aver ritrovato la chiave per l’ascolto delle mie emozioni,delle mie sensazioni è la cosa più straordinaria che mi sia successadurante il lavoro, dandomi la possibilità di riconoscere immediatamentee con certezza chi desidera il mio bene senza altri scopi.Accanto a tutto ciò ci sono naturalmente dei grossi cambiamenti fisici.Non soffro più di vertigini, la cifosi è scomparsa, non devo più teneredritta la schiena perché ormai si sostiene da sola, la muscolaturadelle gambe è più tonica – i quadricipidi finalmente si vedono -il capoè ben dritto con giovamento per tutto il viso che naturalmente haassunto lineamenti più rilassati, sono aumentata di 2-3 centimetri, inquanto si è ridotta la scoliosi. In sostanza mi sento megliofisicamente e per la prima volta a quarant’anni mi piaccio e il piùdelle volte guardandomi allo specchio mi vedo bella come mi sento:ho “rimesso a posto” qualcosa, lenito qualche ferita, reintegrato partidi me senza compromessi.Il mio corpo non è più per me uno sconosciuto e, liberandosi in partedalla sua corazza, mi lancia dei segnali che io riesco ora ariconoscere, rendendo finalmente possibile il dialogo continuo tra lemie sensazioni e le mie emozioni.Quando Maddalena mi ha proposto di frequentare il Corso di Formazioneper diventare terapista del suo Metodo, senza pensarci un attimo eseguendo solo il mio istinto ho detto sì.Sentivo che finalmente potevo occuparmi degli altri nel modo in cuiavevo sempre desiderato: con passione e piacere.Non mi preoccupò affatto di non essere una fisioterapista, né che avevoun altro lavoro in un’altra città e ho fatto bene, perché oggi, grazieal mio essere terapista ho reso migliore anche il mio essere storicadell’arte.Il mese di corso è stato fantastico. Finalmente libera dacondizionamenti, nel clima adatto, ho appreso spontaneamente senzal’obbligo di dover imparare per gratificare l’insegnante. Ho appresoper me e solo per il piacere di farlo. Tutti i miei insegnanti hannosempre investito su di me. Volevano che io facessi e fossi quello cheloro non erano stati capaci e non avevano potuto fare o essere. Questomolte volte mi ha creato ulteriori sensi di colpa, perché non si puòvivere la vita di un altro e quindi alcune volte non sono stata“all’altezza” delle aspettative.Tutto quello che ho appreso è entrato a far parte del mio corpo e dellamia vita con naturalezza. Certo senza il lavoro su di me, che continuocon la costanza di prima nella certezza che un terapista per accogliereil dolore degli allievi deve aver scoperto e accolto il proprio, nonavrei mai potuto farcela.Nell’apprendere i principi del Metodo Monari i miei occhi hannoiniziato a vedere lucidamente e le mie mani a sentire, ascoltare,vedere.Al termine dei tre anni di corso il momento più emozionante, condivisocon Maddalena e le mie compagne di corso ormai amiche: la consegna deldiploma. È l’unico tra quelli conseguiti che ho deciso di appendere almuro non solo perché, pezzo unico diverso per ognuna di noi e coloratocon i nostri colori, ma perché è l’unico conquistato dalla miapassione.Oggi è guidata dal mio intuito, da tutti i miei sensi, dalle mieemozioni che ogni volta entro in palestra ed entro in contato con imiei allievi. Ritrovo così il mio ritmo, i miei tempi, la mia voce, lamia serenità, la lucidità. Il piacere di essere lì in quel momento edessere testimone delle loro scoperte. I miei occhi allora si illuminanoinsieme a loro.Attualmente sto vivendo un periodo molto particolare e delicato dellamia vita. In seguito a un incidente automobilistico si è rotto,sfondandosi, il piatto tibiale esterno della mia gamba destra e si èincrinato l’astragalo del piede corrispondente. Al trauma di unincidente da brividi sull’autostrada è seguitoil trauma dell’operazione al ginocchio per sistemare la fratturaarticolare. Alla degenza ospedaliera sta seguendo il periodo direcupero del movimento in previsione della seconda operazione per larimozione dei tre chiodi inseriti nella tibia, a cui farà seguito unaltro periodo di recupero.Quattro-cinque mesi di fermo, forse sei, in cui tutta la mia attenzioneè stata e sarà dedicata a ritrovare il movimento perduto.Non ho seguito e non sto seguendo una terapia rieducativa di tipotradizionale, che avrebbe previsto subito dopo l’operazione, poiché nonsono stata ingessata, il piegamento passivo del ginocchio con l’ausiliodi macchine (Kinetec) e quindi l’intervento di un fisioterapista che inun modo o nell’altro flettesse il ginocchio.Poco importa se la macchina procura un dolore insopportabile e favenire la febbre: «È naturale, con quel ginocchio ancora gonfio einfiammato!». Poco importa se i muscoli rimangono senza ascolto e lecontratture causate dai traumi subiti senza considerazione: «Bisognamuoverlo, che vuole che sia un po’ di dolore!».D’altronde se l’operazione è riuscita e meccanicamente il ginocchio sipuò articolare, allora si DEVE articolare. La risposta DEVE essereimmediata, se no come si vede il risultato? come si possono sentiregratificati gli artefici?Se può forse iniziare a passare l’idea che nelle contrazioni e nellerotazioni di un corpo si nascondono ferite profonde, quanto è ancorarivoluzionario pensare che un incidente, in cui in fondo c’è stata solouna frattura di un osso, lasci nei muscoli ferite altrettanto profonde!Mi sono così affidata alle cure di Maddalena per sciogliere le rigiditàsenza sfibrare i muscoli, per dare ascolto al profondo dolore e allasgomenta paura che si sono insediati nella mia gamba, nel mioginocchio, nella mia caviglia, nel mio piede terrorizzati.Non potrò mai dimenticare il tremore che ha sconvolto per ore le miegambe, anche quella non ferita, subito dopo l’incidente. Un tremoreinterno, profondo che non si sarebbe placato con tutte le coperte delmondo, ma con delle mani calde che le avvessero toccate, scaldate,accolte, fatte sentire sicure di potersi fidare.Non solo questo è mancato! Giunta al Pronto Soccorso in sala radiologiaho dovuto io, traumatizzata, piena di lividi e impaurita, fare uso ditutte le mie capacità perché qualcuno finalmente capisse che il tremoresi sarebbe placato, almeno in parte, e le lastre sarebbero venute nonmosse se almeno mi fosse stato collocato un appoggio sotto ilginocchio, rimasto flesso dal momento dell’incidente.Non ero mai stata in ospedale, stavo imparando in fretta e a mie spesequanto è raro essere visti, ascoltati, considerati e rispettati da chinon dovrebbe fare che questo. Dovevo considerarmi una paziente nontanto e non solo perché soffrivo, ma soprattutto perché dovevo averemolta pazienza. Ma perché dovevo avere pazienza, perché spettava ancoraa me, che non avevo altro desiderio che di potermi fidare e riposare,il compito di mettere gli altri a proprio agio e consentire loro cosìdi non trattarmi male? Dovevo per forza tornare ad essere brava ebuona, allegra e simpatica per non essere maltrattata?Si è molto disarmati quando si soffre, indifesi quando si dipendecompletamente dagli altri perché non autosufficienti anche nelle cosepiù semplici, come un bambino. E come un bambino ho sentito spessorabbia contro chi, con sguardi o parole, ha inibito un miomovimento per paura che mi facessi male.Ma non era ancora finita!Ho dovuto subire l’angheria di un primario che invece di dirmi concalma che la mia frattura era particolare e necessitava, per esseresicuri del recupero, dell’intervento di un esperto, mi ha vomitatocontro tutta la sua paura e la sua incapacità, senza preocupparsi di mein alcun modo, senza rispettarmi, facendomi sentire in colpa peressermi io procurata “una frattura così brutta!”, lasciandomi senzaparole e nel più profondo sconforto. Come da piccola, quando i mieifratelli e io se ci facevamo male dovevamo nasconderlo a nostro padre,se no erano guai. Al danno seguiva inesorabile la beffa.Ho potuto reagire con l’aiuto delle persone a me care che hanno trovatol’esperto e mi hanno fatto cambiare velocemente ospedale.Quando poi, dopo l’operazione, si è trattato di togliere il drenaggioinserito nell’articolazione e per il dolore devastante ho pianto eurlato, mi sono sentita dire dalla dottoressa «Esagerata!!!, si vedeche non ha mai avuto figli lei!». Al danno ancora la beffa. L’insorgeredelle mie compagne di stanza, a quella che era un’evidente cattiveria,un’offesa del tutto gratuita, la loro complicità, il loro affetto misono stati di grande aiuto.Da quel momento non ho più permesso a nessuno di avvicinarsi al mioginocchio. Ero sempre pronta a fermare mani che intuivo pericolose.Ero in allerta, nuovamente sfiduciata. Ho provato la stessa dolorosaemozione di agitato sconforto provata da bambina verso i “grandi” dicui purtroppo non mi potevo fidare.In tanti mi hanno descritto l’impotenza provata al risvegliodall’anestesia, quel voler parlare e non poterlo fare, la paura provatanel non poter comunicare. Un urlo strozzato. Ho sentito l’impotenza eprovato paura quando dopo l’operazione, ho impartito il comando alginocchio e non si è piegato. Era lì immobile, come separato dal restodel corpo, e non mi apparteneva. I traumi subiti avevano interrotto loschema motorio. Per giorni l’ho sentito come una parte estranea, lariunificazione è avvenuta lentamente tramite il contatto.Ho sentito la gioia quando, nelle prime sedute di terapia, finalmentetoccato con amore e passione, il ginocchio ha iniziato a flettersi el’articolazione, senza dolore, si è aperta come i petali di un fiore.Nel corso della terapia, mentre le mani penetrano i muscoli perscioglierli e ridargli la perduta elasticità sto vivendo emozioniintense, che mi aiutano a reintegrare la mia gamba nel mio corpo. Hosentito quanta rabbia, impotenza, dolore si erano asserragliati inalcuni muscoli, duri come sassi, nel momento in cui mi sono resa contoche stava per succedere qualcosa di tragico, che io non potevoscappare, che era ineluttabile e io non potevo mettere tutto a posto.Ricordo di essermi rassegnata; ma a che costo?So, per il lavoro fatto in tutti questi anni, quanto coraggio ci vogliaa entrare in contatto con le proprie ferite dolorose, ma ho compresosolo ora fino in fondo e sulla mia pelle di quanto coraggio abbiabisogno un terapista per permettere al ”paziente” di sentire il suodolore. Ci vogliono mani calde, non timorose di entrare in contato conil dolore trattenuto nella rigidità e accoglierlo. È importante sentireche il terapista è li accanto a te non tanto con la sua testa e la suatecnica, quanto con le sue mani e il suo cuore. Solo così il muscolo,nella fiducia ritrovata, si è lasciato andare.

Anna Maria Cerioni

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