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LA GIOIOSITA’ DELLA BAMBINA DI UN TEMPO

Pubblicato il . Sezione: Testimonianze

La mia schiena ha cominciato a piegarsi da quando avevo otto anni.
Ma è nell’età dello sviluppo, quella in cui avviene la metamorfosi da bambina a donna, che la mia figura ha assunto un aspetto informe, senza armonia, senza “senso” e senza la sensualità delle forme femminili che avrebbe potuto sviluppare.

La colonna vertebrale era diventata una S che, ovviamente, aveva spostato l’asse del corpo deformandolo quasi tutto: il viso, il tronco, i piedi, le gambe. Inoltre, aveva così compresso i polmoni che di uno avevo perso quasi completamente l’uso.

Come ovvie conseguenze di tutto questo ho avuto per anni blocchi della mobilità, difficoltà respiratorie e dolori fortissimi, che mi hanno costretta a stare per lunghi periodi immobile nel letto. A corollario di quello che era diventato un vivere nel dolore perenne, venne aggiunto l’interminabile pellegrinaggio dai tanti luminari della ortopedia nazionale.

Le cure prescrittemi erano quelle classiche di tutte le scoliosi ad esse italica, e cioè la ginnastica correttiva, che doveva “potenziare e irrobustire” la muscolatura posteriore, e busti di ogni sorta: impalcature di ferro e plastica che mi bloccavano completamente il corpo e che, spesso, ho dovuto portare anche durante la notte per “evitare movimenti troppo liberi” che avrebbero “danneggiato la schiena” (parole testuali di uno dei tanti professori). Alla prescrizione della fisioterapia si univa, sempre, il refrain sulla indispensabilità di eseguire un intervento che, su stessa ammissione dei medici, avrebbe avuto come conseguenze certe l’immobilità totale della schiena, l’insorgere di dolori nuovi e la necessità di seguire terapie riabilitative per tutta la vita. La conseguenza probabile al 50- 60%, era la paralisi totale delle gambe e delle braccia. Questa situazione si protrasse per circa diciott’anni e mi portò ad uno sfinimento tale che, a 32 anni, avevo ormai deciso di giocarmi il tutto per tutto e stavo per farmi operare.

Ma, proprio pochi giorni prima di andare a prenotare il ricovero in ospedale, un’amica di mia sorella che era già allieva di Maddalena Monari, mi parlò del suo Centro e di quanto fosse stato importante per lei averlo incontrato.
Un po’ spinta dall’idea che ne avevo provate tante e che avrei potuto fare anche quell’ultimo tentativo, un po’ affascinata dal racconto di quel modo diverso di “curare” il corpo, mi iscrissi al primo stage.
E, come si dice, fu subito amore: percepii immediatamente che lì mi avrebbero aiutata a ritrovare quelle potenzialità che erano ancora intatte e che mi servivano per uscire dal tunnel del vivere da malata.

La prima cosa che sentii fu il rispetto che c’è nel “trattare” il corpo seguendo il Metodo Monari: non più qualcosa di estraneo da correggere ma una parte fondamentale di me stessa da aiutare. Il corpo cominciò da subito a lanciare segnali precisi che mi fecero capire come quella era (ed è) la via giusta e, da allora, è cominciato quel risveglio fisico che ha cambiato tutta la mia vita.

È stato proprio il prendere in considerazione il corpo come entità viva che mi ha fatto fare tante scoperte. La prima, e più grande, è stata quella che non mi portavo dietro un ammasso indistinto di ossa e muscoli, ma che il corpo è un insieme che si sviluppa e vive secondo “leggi naturali” e che è parte di quel sistema più grande, complesso e completo che è tutta la persona; sistema che, a sua volta, è regolato da una “legge generale”, propria e unica di ogni individuo, che indirizza e governa tutta la “macchina” umana, dalla fisicità, alle capacità intellettuali, alle emozioni.

Lavorare il corpo in modo diverso da quello che avevo conosciuto da bambina, mi ha portato a prendere coscienza del fatto che la mia scoliosi non era dovuta ad un qualche strano virus o, come qualcuno asseriva, ad un vizio congenito, ma che la mia schiena si era piegata, indebolita e schiacciata perché la bambina che ero stata, aveva dovuto subire e accettare, oltretutto come prove d’amore, le altrui continue violazioni di quelle leggi naturali e generali che ne regolavano l’equilibrio.

Il lavoro su di me con il Metodo Monari è stato il tramite attivo per cui ho (ri)conosciuto queste idee e ho capito quanto mi appartengono e che l’averle dovute negare e rimuovere, è stata la causa unica e vera del mio essere, sentirmi e dover vivere come se fossi stata spezzata in due: mi ha fatto acquisire quella conoscenza dell’unicità del mio essere che mi era del tutto ignota, aiutandomi a (ri)trovare il senso che unisce il corpo all’emotività e alla razionalità. Da subito, sono stata ammaliata dal fascino dei legami che esistono tra cuore (= emozioni) e corpo, tra ricordo e creazione di possibilità future e tra tutti questi “elementi” assieme. Il mistero dei robusti fili che legano emotività-fisicità-razionalità si è svelato proprio andando a lavorare sul corpo: quando la “pelle” ha cominciato a sentire il piacere di essere amata, quando i muscoli hanno cominciato ad ammorbidirsi e a tornare alla loro forma naturale.

Da lì è cominciata la mia gioiosa rinascita, dentro una tribù che mi accoglieva per quello che ero, che mi era vicina senza chiedermi niente in cambio, che mi aiutava a riconquistare quell’aria e quello spazio negati, che mi faceva assaporare il piacere del vivere in branco e del (ri)costruire le tante storie dei propri componenti, ognuno per proprio conto ma, contemporaneamente, essendo ciascuno importante per gli altri.
Faccio un esempio, anche se credo che le parole non riescano a rendere fino in fondo tutto quello che avviene “dentro”.
Con una serie di esercizi che hanno ammorbidito e riallungato la muscolatura posteriore, ho percepito e si sono sbloccate le anche e i fianchi, tanto contratti per cui ne conoscevo l’esistenza solo per il dolore che mi provocavano, ma di cui mi era sconosciuta la vera utilità. Sbloccando quelle parti, dolorosamente ma, assieme, con un gran senso di liberazione, ho percepito che qualcun’altro aveva provocato quel blocco in un passato apparentemente lontano ma, emozionalmente, ancora vicinissimo.
Ho sentito che quei muscoli erano rimasti paralizzati sotto una massa di sottile violenza, riversatami addosso sotto le mentite spoglie di amore. Contemporaneamente il bacino si è “messo in moto”, cioè ho potuto finalmente fare tutti quei movimenti che non conoscevo perché non avevo mai potuto neanche “sperimentarli”.
Poi, nel lavoro di contatto che è seguito, nell’abbraccio caldo e consolatorio di un’amica, ho rivissuto tutto il dolore provato dalla bambina di allora: qualcosa di profondamente mio mi era stata tolto, anzi strappato con una brutalità tanto grande che avevo preferito non ricordare più.
Oggi, con il bacino libero da “legacci” e con tutta l’emozione che viene da un movimento (ri)trovato, ho voglia e, soprattutto ne ho la possibilità di saltare, correre, ballare, ancheggiare senza sentire dolore né fisico né emotivo.

È stato proprio attraverso la ricerca del “cosa” aveva deformato il mio corpo, che ho potuto scoprire la grande mistificazione che ha stravolto me e il mio senso della vita, ossia, la vera natura di quei sentimenti che mi sono stati spacciati per amore. È stata questa ricerca che mi ha portato a scoprire come il corpo si è contorto per la lotta che la bambina di un tempo doveva combattere contro se stessa per doversi adattare, a tutti i costi, ad essere plasmata, ammaestrata, educata secondo canoni, necessità e prospettive di vita che altri si erano prefissi, avendo, al contempo, la costante certezza che sarebbe comunque risultata poco conforme alle aspettative riposte su di lei.
Alla bambina allegra, vivace, curiosa, pronta a socializzare non erano riconosciute né le sue capacità, né le sue esigenze, né lo spazio necessario ad esprimersi.
Le si disconosceva il diritto ad esistere, forzandola ad essere altro, ad immedesimarsi in un gioco delle parti che le era estraneo. Le peculiarità venivano svilite. Le veniva lentamente inculcata la paura di essere comunque “al di sotto” e, quindi, diversa dagli altri per “patologia” e non perché ognuno è uguale solo a se stesso. La semplice e naturale necessità di crescere accompagnata nel mistero della vita finché non ne avesse trovato la sua chiave di volta, la voglia di “muoversi” per il mondo, di trovare e prendersi lo spazio che pensava le spettasse, tutte queste “ovvie” necessità legate alla fragilità ma, anche, alla magia dell’infanzia, si sono schiantate prima contro e, poi, dentro, la gabbia di dolori, frustrazioni, paure, rabbie, insofferenze e indifferenze altrui, che le furono caricate sulle spalle per umiliare e soffocare l’essere che preludeva alla donna.

E il suo corpo non ha potuto far altro, appunto, che piegarsi sotto questo peso, cercando di adattarsi come poteva a quella “sovrastruttura” che, violando in continuazione tutti i confini, fisici e non, si insinuava fin nell’intimo più profondo, togliendole l’aria e lo spazio. In sostanza, il messaggio che mi veniva lanciato e, soprattutto, quello che io percepivo era che la mia (supposta ma mai apertamente dichiarata) scarsa capacità intellettuale, l’incapacità di essere autosufficiente, la cupezza del carattere, la timidezza, così come la scoliosi, erano vizi di fabbricazione, qualcosa di congenito.

Cosicché, con l’andare degli anni, avevo raggiunto un’unica certezza: quella di essere storta nel corpo e nella mente, di essere stata io ad inceppare qualche pezzo del meccanismo. E non potevo che giungere a quella conclusione visto che, diversamente, avrei dovuto riconoscere che chi avrebbe dovuto amarmi era stato, in realtà, la causa prima dei danni che avevo subito e delle beffe che a questi si erano aggiunti.
Ma, il prendere coscienza di questa mia non colpevolezza, era molto più difficile e doloroso che non fare ammissione di colpa.

Se, con tutti i mezzi, hanno cercato di convincerci che siamo inguaribilmente “sbagliati”, ingrati, ottusi, che viviamo male solo per colpa nostra, perché non abbiamo saputo apprezzare ed utilizzare l’amore che ci sarebbe stato dato, era più facile, più ovvio pensare ad una mia naturale colpevolezza, piuttosto che ad una naturale innocenza.
Oggi, però ho la sensazione che le mie, onnipresenti, insofferenza e insoddisfazione siano state il segno più evidente del fatto che, seppure nell’inconscio più profondo, ho sempre percepito la vitalità, la gioiosità, la forza della bambina di un tempo, che, in definitiva, la bambina stessa, non era morta ma era rimasta in una sorta di doloroso limbo, intorpidita e impedita a nascere veramente. Klarissa Pinkola Estés sostiene che «… Da qualunque cultura sia influenzata, la donna comprende intuitivamente le parole donna e selvaggia. Quando le donne odono queste parole, un’antica, antichissima memoria si rimescola e torna in vita. La memoria è della nostra assoluta, innegabile e irrevocabile affinità con il femminino selvaggio, sepolta dall’addomesticamento eccessivo, messa fuori legge dalla cultura circostante, o non più compresa per niente. Possiamo aver dimenticato i suoi nomi, possiamo non rispondere quando chiama i nostri, ma nelle ossa la conosciamo, ci struggiamo tendendo a lei; sappiamo che lei ci appartiene e che noi apparteniamo a lei».
Credo che, per quanto mi riguarda, mai richiamo sia stato tanto forte come quello della mia “selvaticità”, cioè del legame giocoso, gioioso e naturale, che mi unisce alla vita.

Ma la sofferenza, la frustrazione, la disperazione della bambina avevano bloccato, per forza di cose, l’avvicendarsi della Donna Selvaggia: non avevo potuto riconoscere questa perché ero impegnata nel costante tentativo di far definitivamente “venire al mondo” la bambina. Mi erano stati inibiti a priori, fin da quando ero una “cucciola”, l’udito per ascoltare il richiamo della Donna Selvaggia, la voce per risponderle e la forza fisica necessaria a seguirla.
Dunque, la mia “natura primordiale”, la capacità di intuire e percepire la vita e gli altri esseri, la possibilità di capire quali erano i miei confini naturali sono state offuscate.
Si è annebbiata la capacità di sentire e vivere le emozioni e, visto che è lo specchio di quello che ha vissuto e subìto lo “spirito” (o come lo si voglia chiamare), si è ammalato il corpo e la sua capacità di percezione dei limiti fisici che gli dovevano essere propri, quei limiti che ne costituiscono la forma e che permettono di poterlo sentire come proprio. Il mio corpo era diventato la sola e unica valvola di sfogo rimastami per segnalare la rabbia, il dolore, la frustrazione che non riuscivo ad esprimere: mi erano stati bendati gli occhi, otturate le orecchie, messa la museruola e legate le zampe per cui non potevo vedere cosa fare della mia vita, non potevo sentirne il richiamo, non potevo cantare la gioia di vivere e non potevo camminare né, tantomeno, correre verso quello che, seppur inconsciamente, avrei desiderato fosse un futuro positivo.

Speranze e sogni erano avvolti nella più profonda nebbia dell’insicurezza, perché mi era stato insinuato il dubbio di essere sempre inadeguata, poco adatta, naturalmente incapace a capire, troppo debole per poter andare da sola.
Ero certa che avrei avuto costantemente bisogno di qualcuno che mi indirizzasse, che decidesse per me, tanto che l’idea di dover procedere nella vita senza l’appoggio, o meglio, l’indicazione della direzione da prendere e, poi, l’approvazione di qualcuno “più capace ed esperto”, mi dava il panico.

Non mi rimaneva che chiudermi sempre più in me stessa, visto che, oltretutto, la mia socialità era stata annientata; mi avevano sempre parlato degli “altri” come estranei invadenti, pericolosi, rapaci, ambigui, di cui temere la naturale propensione alla violenza e, allo stesso tempo, mi era stata inculcata nella mente l’idea che l’unica unità di misura valida per valutare le persone era la capacità e la conoscenza intellettuale: il cervello è l’unica bussola valida per orientarsi nella vita, il resto è tutto un sovrappiù.

La prima cosa da fare, mi dicevano, è razionalizzare le emozioni, ragionarci sopra e non lasciarsi “trascinare” da esse.
Ed io, sempre considerata come un tipo “troppo emotivo” (e, l’eccesso di emotività, veniva inteso come debolezza e dabbenaggine), sono stata pian, piano presa dal terrore di confrontarmi con le altre persone; ero totalmente impedita, incapace di costruire quel mondo di rapporti umani che, sotto sotto, avrei desiderato: la timidezza era diventata il paravento dietro cui nascondere la paura di essere sempre più stupida e inetta.
La paura del contatto, non solo fisico, mi paralizzava e, anche se ero in un gruppo di amici, ero comunque e sempre sola, isolata, incapace di difendere la mia unicità, incapace di accettarmi e, quindi, di propormi per quello che ero (e sono).
Ecco, la paura mi è stata per tanto tempo costante, scomodissima e paralizzante compagna di viaggio.
Spesso, anche per cose apparentemente banali, era la paura che sconfinava nel panico o nel terrore. Era una sensazione fisica molto forte: mi rendeva inerme, mi immobilizzava il corpo, e si attaccava alla bocca dello stomaco (tanto che, già verso i sette anni, parallelamente alle prime avvisaglie della scoliosi, venne fuori la gastrite).
Mi faceva sentire vigliacca e, perciò, ancor più stupida di quanto non mi sentissi già. Mi accompagnava nelle “piccolezze” della vita quotidiana come nelle grandi cose. E non riuscivo a vincerla perché mi pensavo troppo debole per affrontarla.

Oggi so che quella paura, seppure tanto scomoda e intralciante, è stata in qualche modo un mezzo di salvezza, una inconscia manifestazione di forza: mi segnalava che i miei confini erano stati violati e che, quindi, non avendo sviluppato un buon sistema di difesa, dovevo essere vigile perché potevo essere facilmente attaccata e non avevo le armi per rispondere.
La paura, o meglio, le tante paure, hanno cominciato a scemare quando ho capito che ad una “ferita” del cuore ne corrisponde una del corpo, che tutte e due hanno lasciato una cicatrice, che il dolore può tornare quando rivivo situazioni simili a quelle che hanno provocato il danno e che, tuttavia, il dolore può convivere con la gioia di vivere, con la costruzione di aspettative per il futuro.

Da questo punto in poi il mio corpo ha cominciato a riprendere la sua forma naturale; man mano che esso è tornato alla sua normalità, io ho cominciato a riprendere in mano anche tutto il resto della mia vita.
Dare un nuovo senso alla mia vita è anche un ulteriore modo per ricostruire tutta la mia storia, un modo per arrivare meglio alle radici del mio stare male. Per esempio, curare il corpo in modo amorevole, mi ha premesso di vedere con un occhio diverso il percorso terapeutico che ha preceduto il mio incontro con il Metodo Monari, e mi ha fatto capire come i vari busti e ginnastiche più o meno correttive, per me, sono stati una ulteriore punizione, un aggravio di pena dato ad una persona che segnalava il proprio disagio verso l’ammaestramento, il soffocamento della propria “indole selvaggia”, un aggravio di pena per chi continuava a “dire la sua”, seppure esprimendosi in modo così doloroso.

Questo è potuto accadere soprattutto perché viviamo in una società complessivamente e profondamente malata, instabile, insicura delle proprie basi, che, perciò, a qualsiasi idea (politica o religiosa) si faccia riferimento, non ammette la non conformità ai propri canoni morali e materiali.
Esiste comunque un conformismo a cui si deve sottostare, pena l’esclusione, l’essere posti “fuori dal gruppo” e, quindi, considerati come elemento di disturbo da “risocializzare”, “rieducare” per essere ricondotti entro l’ambito di quei canoni.
È una società che “fa ammalare” chi non risponde a quegli schemi rigidi che la regolano, facendo diventare comunque un “mostro” chi non si sottomette, costringendolo a enfatizzare tanto la sua diversità fino a farla diventare una abnorme anormalità e fino a farlo dibattere nel dolore di non riuscire ad adeguarsi a quei canoni.
Ed è stato proprio leggendo in questo modo la piccola società in cui aveva vissuto la bambina di un tempo, che ho scoperto la “positività” e la funzione del dolore, quel dolore che un tempo rifuggivo o, peggio ancora, negavo.

Oggi lo vivo fino in fondo perché, risentire un dolore antico, mi serve a riconoscere, capire e, quindi, alleviare un dolore di oggi, a trasformarlo in una “azione positiva” verso me stessa. Ho lo strumento che mi permette di vedere e valutare l’ostacolo.
So che la schiena può farmi male quando mi sento piegata sotto il peso dell’umiliazione, dell’offesa, del non veder riconosciuta la mia capacità o la mia intelligenza.
Ma la conoscenza del legame fra questo dolore fisico e questo dolore emotivo l’ho conquistata solo dopo che mi sono calata in quello della Bambina che ha visto umiliata, offesa, negata la propria intelligenza, le proprie capacità, le proprie emozioni.
Affrontare e vivere il dolore mi ha dato, soprattutto, la possibilità di riprendermi la mia corporeità, il mio esistere tutta intera, fatta (come tutti) anche di materia palpabile, che può trasmettere sensazioni e dialogare con gli altri allo stesso modo, anzi, per me, alzando il livello della comunicazione, più di quanto non si possa fare con le più belle parole.
Molto spesso, le emozioni più grandi sono solo filtrate dalle parole, perché se non sono accompagnate da uno sguardo, da un gesto, difficilmente si può renderne il senso vero.

Ho cominciato a sentire con piacere che il corpo è vivo e può parlare, che non è più uno sgraziato ed ingombrante scatolone, utile solo a portare in giro un cervello neanche tanto sviluppato, ma che, finalmente, è diventato fisicità; intelletto e sfera emotiva sono diventati un tutt’uno; si è aperto quel dialogo fra loro che mi permette di non sentirmi più spezzata.
Riprendermi il mio dolore mi ha fatto anche (ri)scoprire il piacere.
Capire il dolore che c’era dietro al non trovare o di non riuscire a “gustarmi” fino in fondo un qualsiasi piacere, mi ha portata a capire che non sta scritto in nessuna legge della natura che il provare piacere è un male, una perversione, che non deve affatto essere accompagnato dal dolore per aver ricevuto qualcosa di immeritato.
Anzi, credo proprio che l’aspirazione al piacere è un diritto sacro e inviolabile, una giusta e sana aspirazione insita nell’animo umano.
Ho scoperto le tante facce del piacere, molte per me del tutto sconosciute: il piacere fisico, fatto di tanti piccoli e grandi piaceri, come quello del contatto “di pelle” con persone anche sconosciute, ma con cui si può creare un “feeling” solo perché, magari, mi prende l’odore o lo sguardo; il trovare consolazione, affetto, solidarietà nell’abbraccio di qualcuno che vedo per la prima volta ma che sa trasmettermi calore, passione, emozione e il piacere di potermi abbandonare a questa sensazione; il piacere di scoprire che il corpo può seguire un desiderio del cuore senza dolore ma, anzi, essendo stimolato a guarire; il piacere di azzardare, di rischiare, di mettermi in gioco; il piacere grande di sapere che posso stare bene con me stessa e di avere la consapevolezza che posso reggermi da sola, sulle mie gambe e con la mia testa, pur avendo la necessità di avere vicino il “resto del mondo”, che è di importanza vitale per la Donna Selvaggia, grande “animale sociale” che ama la sua solitudine tanto quanto il vivere in branco.

Lasciarmi andare al piacere di gustare il piacere.
Sembra un gioco di parole, ma è la conquista della consapevolezza di essere nel pieno diritto di seguire l’onda delle mie emozioni, dei miei desideri, dei miei bisogni, senza sentirmi in colpa e senza avere la sensazione di tradire qualcuno.
È la certezza che niente e nessuno può più arrogarsi il diritto di far seguire una punizione ad un piacere provato, ad un desiderio realizzato, ad un bisogno appagato.
È la ritrovata forza del non dover sempre, come si dice, razionalizzare ogni sensazione, ma il riuscire, finalmente, a vivere le emozioni come vengono e per quello che sono.
È la certezza che il corpo, se amato come parte integrante di se stessi, non ha bisogno di correzioni, ma vuole semplicemente essere assecondato nel suo evolversi.
È guardarmi allo specchio e vedere un corpo femminile, seppure ancora con dei problemi.
È stato lo scoprire di avere peculiarità che neanche sospettavo e che mi danno grande soddisfazione, come il saper parlare e il saper trasmettere questo piacere agli altri; il saper ricevere quello che gli altri mi offrono di sé; l’essere divertente, allegra, scanzonata; l’essere considerata da persone che stimo, e il sentirmi io stessa, come una “forza della natura”, parte integrante di quella natura che non si lascia sopraffare con tanta facilità ma che sa come conservare almeno parte della sua integrità.
È avere la certezza che ho delle capacità e delle possibilità, volutamente e sicuramente diverse e non più confondibili con quelle aspettative che qualcun’altro aveva riposto su di me, è la necessità, ovvia per una Donna Selvaggia, di non poter stare chiusa e ferma in piccoli spazi (siano essi fisici o mentali), ma di avere insito in sé il bisogno primario di muoversi, di poter viaggiare col corpo, con la mente e con il cuore.

Ma è un piacere anche la coscienza dei miei “limiti”, perché so che questi mi danno la misura dei miei confini ritrovati; non sarà facile farli rispettare, ma è già molto averli individuati e sapere che a me stessa debbo il dovere e il piacere di difenderli da sola, che non ho bisogno di cavalieri senza macchia e senza paura che stabiliscano quali sono e come vanno difesi.

Il Metodo Monari mi è servito, dunque, da “guida” per arrivare alla (ri)scoperta e all’amore verso la “mia” bambina e, contemporaneamente, alla acquisizione della coscienza che la Donna Selvaggia è ancora viva in me, che io sono una Donna Selvaggia.
Per dirla meglio, riprendendomi la mia corporeità, ho capito che tutto il mio squilibrio era la conseguenza del non aver potuto percepire la connessione che pure esiste tra la mia bambina e la Donna Selvaggia, cioè del non aver potuto dar corso alla naturale evoluzione della prima verso la seconda.

Il Metodo Monari è stato il “luogo” fisico, mentale ed emotivo per cui ho potuto (ri)stabilire il contatto fra la mia Bambina e la Donna Selvaggia, che si sono finalmente trovate, e vivono a loro agio, nella loro casa rinnovata che è il mio corpo. Molti fili li ho già riannodati e il passaggio di consegne è già avvenuto.

Roberta Gravano

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