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UN PASSATO DA ‘PICCOLA GINNASTA’, POCO CONVINTA

Pubblicato il . Sezione: Testimonianze

Ho pochi e sfumati ricordi della mia infanzia e quando riguardo l’album delle mie vecchie foto, mi soffermo su di una in particolare, una bambina con due grandi occhi neri che mi rivolge uno sguardo intenso, carico di domande e aspettative. Frugando nella memoria, affiorano i ricordi del mio primo giorno di scuola e del volto della mia compagna di banco. Ad uno ad uno rivivo alcuni momenti di allora.

Tutti in fila, nell’atrio della scuola elementare, ci viene somministrato il vaccino orale antipoliomielite. Radunati nel cortile della scuola, con grandi occhiali scuri, attendiamo l’eclissi di sole. E ancora, vengo messa in punizione per aver copiato un tema, preparato a casa il giorno precedente. Ricordo molto bene mia nonna, con cui io e mio fratello siamo cresciuti e ricordo i suoi racconti di quando, pollivendola, andava in bicicletta a vendere polli e conigli al mercato di Lugo. È sempre stata una presenza rassicurante, per noi bambini, la nonna, tacita complice dei nostri piccoli misfatti e sempre pronta a difenderci con i nostri genitori. I miei genitori erano tutto il giorno al lavoro e la sera tornavano a casa stanchi e spesso nervosi. Erano molto severi e quando si arrabbiavano non c’era da scherzare, per cui preferisco ricordarli nei momenti più dolci, quando mio padre ci incantava con favole fantastiche per farci mangiare o mia madre ci assisteva nei compiti, insegnandoci tabelline e preposizioni. Sono la primogenita di due figli, ho un fratello più giovane di quattro anni e ho sentito molto il peso di essere stata la prima e per di più femmina. Inoltre l’adolescenza è stata per me, come per la maggior parte dei ragazzi, molto difficile: avevo un corpo che non accettavo e mi mortificava l’essere presa in giro dai compagni perché grassottella. Ero pigra e molto golosa e mia nonna, reduce dagli anni della guerra, anni di sacrifici, risparmi e digiuni, era orgogliosa di poter crescere i suoi nipoti a tagliatelle al ragù, carne e formaggio, latte e uova. Non riuscivo a trattenermi davanti ai piatti di pasta ben condita che la nonna mi preparava. Era una festa quando a merenda trovavo la crema gialla calda, ma poi la crisi sopraggiungeva, di fronte ad un vestito da comprare o un costume da indossare, in un’epoca della vita in cui ci si vorrebbe sentire in perfetta forma, essendo il tempo delle prime feste e delle “prime cotte”. Non amavo lo sport e non sono mai stata competitiva, a differenza di mio padre che ha dedicato ad esso tutta la vita ed ha sempre gareggiato per vincere, non per partecipare. Un po’ per compiacerlo, un po’ per migliorare il mio aspetto fisico, cominciai a praticare sport, dalla pallavolo all’atletica, dal tennis all’equitazione, e poi ancora lo sci e la palestra, con tanta fatica e poche soddisfazioni. Mi consolava pensare che questi sacrifici sarebbero comunque valsi a preservarmi dagli acciacchi dell’età adulta, soprattutto dai dolori alle ossa. E così per anni ho allenato il mio corpo con esercizi faticosi che obbligavano i miei muscoli a contrazioni violente, spesso dolorose. Ricordo in particolare la ginnastica in palestra, gli esercizi alla spalliera, i pesi, l’aerobica. Nessuna di queste attività mi divertiva e nessuna riusciva a rilassarmi. Di divertimento e di rilassamento avrei avuto invece davvero bisogno, in quanto avevo intrapreso una carriera di studi e di lavoro molto pesante, cioè quella di medico. A ventiquattro anni mi ero laureata in medicina, poi mi ero specializzata in pediatria ed avevo trovato lavoro come pediatra in ospedale, la mia massima aspirazione. Il ruggito ritrovato È stata per me una spiacevole sorpresa, cinque anni fa, all’età di trentasei anni, trovarmi alle prese con un fastidiosissimo mal di schiena, un forte dolore sotto la scapola destra, che mi impediva persino il riposo notturno. Ero reduce da una settimana di intenso allenamento sportivo durante una vacanza con amici in Francia, dove finalmente mi ero sentita con “un fisico bestiale” ed ero riuscita a fare di tutto, dallo sci estivo all’equitazione, dalla mountain bike al tennis, riuscendo anche a divertirmi. Quel dolore non ci voleva, ed ancor più amara fu la sorpresa quando le lastre rivelarono una colonna con curvature scoliotiche e segni di artrosi incipiente (così giovane!). Iniziai così la “via crucis” degli specialisti e delle terapie: il neurologo ipotizzò una nevralgia, il fisiatra una mialgia, l’ortopedico, infine, prospettò la possibilità di un osteoma di una vertebra dorsale, sulla base di una immagine sospetta delle lastre. Si trattava di un tumore benigno delle ossa, più frequente nell’infanzia e che in quella sede avrebbe potuto essere pericoloso per il rischio di danneggiare il midollo osseo, qualora avesse dovuto essere asportato. E l’asportazione si sarebbe resa indispensabile, se il dolore si fosse rivelato, a lungo andare, non più sopportabile. Così, paralizzata dalla sentenza, decisi di fare qualsiasi cosa pur di eliminare il sintomo. Feci un primo tentativo con i comuni farmaci antinfiammatori, che poco effetto ebbero sul dolore, ma mi causarono un tremendo mal di stomaco. Poi mi affidai alle mani di un muscoloso fisioterapista che si accanì sulla mia schiena, massaggiandola con vigore, con nessun risultato se non quello di farmi odiare le sue pesanti manone. Affrontai anche la prova del manipolatore, ma quando questi prese a “manipolarmi” la colonna con tale energia che pareva volesse spezzarmela, decisi di sospendere dopo la prima seduta. Ero disperata. Su consiglio di una collega, mi rivolsi ad una fisioterapista di nome Maddalena, che lavorava in un centro privato, vicino a casa mia a Bologna, dove svolgeva un lavoro a gruppi di “antiginnastica e psicomotricità”. Il termine antiginnastica mi ispirò subito simpatia, mentre il secondo, psicomotricità, mi lasciò perplessa e forse anche un po’ spaventata, ma ero fermamente decisa a tentare quella strada. Ricordo il primo incontro con Maddalena: con le lastre sottobraccio le dissi che ero medico, che avevo un terribile mal di schiena e che volevo lavorare con lei. Non sembrò molto interessata a me e al mio problema. I corsi erano iniziati e con lei non c’era più posto. Ero decisa a non cedere e così le dissi che mi era stato diagnosticato un tumore vertebrale. Se il dolore non passava dovevo essere operata e l’intervento aveva un rischio di complicazioni elevatissimo. Fui inserita in un gruppo che aveva già iniziato a lavorare, rivelatosi però molto disponibile ad accogliermi. Ricordo le prime sedute, in cui avvertivo un grande imbarazzo, soprattutto quando mi veniva chiesto di riferire al gruppo come mi sentivo, abituata com’ero a chiedere io agli altri come si sentono. Anche alla fine della seduta, durante i lavori di contatto, mi sentivo goffa e inadeguata, abituata come ero ad un mondo in cui nessuno ti guarda, nessuno ti tocca e quasi ci si impaurisce se qualcuno ti abbraccia con calore. Non era necessario fare bene l’esercizio ma era sufficiente cercare di eseguirlo. Nella respirazione non era importante inspirare con vigore, come mi avevano insegnato nel mio passato di “piccola ginnasta”, ma bisognava soprattutto buttare fuori tutta l’aria e cioè espirare completamente per rilassare il diaframma. Alla fine di ogni seduta non ero stanca, ma anzi mi sentivo rilassata e piena di energia. In pochi mesi mi passò completamente il dolore. Decisi allora di fare una lastra di controllo, che dimostrò che quella immagine sospetta era in realtà solo un “artefatto”, o falsa immagine radiologica. Fui così consapevole che il mio dolore era il risultato di contratture muscolari che avevano radici antiche. La sofferenza che mi aveva procurato mi aveva impedito di rimuoverlo e anzi mi aveva costretto a fermarmi ad ascoltarlo e a cercare di interpretarlo. Continuai così con entusiasmo a frequentare il Centro Monari, con indubbi benefici sul mio corpo che acquistava sempre più morbidezza ed armonia nei movimenti, grazie al lavoro di gruppo che svolgevo settimanalmente. E via via che i miei muscoli si ammorbidivano ed il mio corpo trovava un nuovo equilibrio, con la colonna più dritta, il collo meno contratto, le spalle più basse, la mandibola meno serrata e gli occhi più aperti, piccoli ma progressivi cambiamenti investivano tutta la mia sfera emotiva e relazionale. Non avevo più bisogno di quell’esagerato autocontrollo che mi era stato imposto fin da bambina e che mi impediva di esteriorizzare le emozioni, non trovavo più imbarazzante piangere se ne sentivo il bisogno, così come non sentivo più l’obbligo di trattenermi, se volevo sfogare la mia rabbia, magari urlando. Col tempo ho imparato a non soffocare le emozioni, come in passato, ho capito quanto può giovare esprimerle, mentre il trattenerle fa ammalare il corpo e soffrire il cuore. Così finalmente anch’io, che ho sempre ritenuto indecoroso ed inopportuno alzare la voce, in occasione dell’ultimo stage a cui ho partecipato, ho tirato fuori un potente ruggito da leone ferito e profondamente offeso, ho gridato a tutti la mia rabbia, e alla Maddalena, che a fine seduta chiedeva di riferire al gruppo cosa ci “portavamo a casa” ho risposto: «il ruggito del leone, che avevo dimenticato nella culla». Riscoprire i bambini e incontrare il bambino che è in me Col tempo, anche il mio lavoro di pediatra ha preso nuovi significati. Fin dai banchi della scuola elementare scrivevo nei temi che avrei voluto fare la pediatra. Mi affascinava l’idea di prendermi cura dei bambini malati. Quando però il mio sogno si è avverato ed ho iniziato a lavorare in ospedale, il mio rapporto con i bambini è diventato sempre più professionale, da medico a paziente, scegliendo sempre come interlocutore il genitore e trascurando i bisogni e le paure del bambino, presa come ero dal desiderio di curare bene ed in fretta la sua malattia. Negli ultimi anni questo rapporto è cambiato ed io sono molto più attenta a ridurre al minimo i traumi, che in ospedale per un bambino sono tanti, il distacco dall’ambiente domestico, la visita medica, i prelievi, le punture. Spesso anche le procedure diagnostiche vengono eseguite tenendo conto più delle esigenze del medico che del rispetto del paziente, che nel mio caso è un bambino. Emblematico è il caso della biopsia intestinale, che si esegue in pediatria soprattutto quando si sospetta una malattia celiaca, una intolleranza ad alcuni cereali, quali il grano. Si esegue con una capsula metallica che va introdotta dalla bocca e durante l’esame il bambino deve stare fermo, per cui i testi medici consigliano di avvolgerlo stretto con un lenzuolo, a mo’ di mummia, in modo da impedirgli qualsiasi movimento. Il bambino si trova così legato e solo, perché i genitori vengono tenuti fuori, per non essere di intralcio agli operatori. Questo è sicuramente un modo di procedere più sbrigativo e comodo per il medico, ma estremamente coercitivo e violento per il bambino. Lasciare il bambino nella sua cameretta accanto ai genitori, spiegare bene ed in modo semplice la tecnica, chiedere la collaborazione del bambino stesso se grandicello, o dei genitori se più piccolino, comporta certamente un dispendio maggiore di tempo e di energia, ma chi si occupa di persone malate, soprattutto se bambini, non deve avere fretta, e non deve perdere di vista l’obiettivo principale, che è il rispetto del malato e della sua malattia. E così se il bambino si fida, se si sente abbastanza tranquillo, se anche i genitori collaborano e l’ambiente è rassicurante, sarà ridotto al minimo il trauma dell’esame ed il bambino non serberà di esso un ricordo tanto brutto. Sono cambiate anche le mie convinzioni riguardo allo sport, soprattutto quello agonistico, svolto il più delle volte dai bambini più per compiacere i genitori che per loro reale divertimento. Ogni sport comporta contrazioni muscolari che tendono, col tempo, ad accorciare i muscoli, soprattutto quelli posteriori ed a ruotare l’asse del corpo, causando i vari dismorfismi che sono alla base dei dolori ossei dell’età adulta. Il movimento è importante, ma bisogna muoversi nel modo più naturale possibile, senza costringere i nostri poveri muscoli ai lavori forzati, per cui ai genitori che mi chiedono consiglio su quale sport far fare ai loro figli, rispondo: «fateli divertire». Ho imparato a guardare il corpo del bambino nel suo insieme e ad interpretare meglio i suoi sintomi, e così ora so che i piedi piatti non devono essere chiusi in scarpe ortopediche per essere sostenuti. Non sono infatti altro che la conseguenza di una schiena contratta e rigida. Anche per altri dismorfismi, quali le ginocchia valghe, la scoliosi, le scapole alate, so che sono il risultato delle dolorose rotazioni di un corpo che prima va attentamente osservato e poi riportato in asse, senza bloccare il movimento con busti, tutori, gessi o altro. Ho imparato ad interpretare il sintomo non più solo come spia di malattia organica, ma spesso anche come segnale di disagio che il bambino prova nell’ambiente famigliare, scolastico e sociale. Il lavoro fatto su di me in questi anni mi ha insegnato ad ascoltare i segnali del corpo e questo è stato di grande aiuto a me ed al mio lavoro di medico. Sono convinta che la salute di una persona, fisica e psichica, derivi dalla fiducia in se stessi, che si apprende solo attraverso il processo della vera comunicazione. E così anche nel mio lavoro posso contribuire a mantenere la fiducia del bambino, cercando di comunicare con lui o riallacciando comunicazioni interrotte. Il bambino impara più attraverso il piacere che attraverso la sofferenza e più grazie ai suggerimenti e alle spiegazioni che agli ordini e tutti coloro che si occupano di bambini, pediatri compresi, devono esserne consapevoli. Durante questi anni, quando ho incontrato i miei blocchi muscolari ed emotivi, ho attraversato momenti faticosi e dolorosi, ed ho avvertito una grande stanchezza, a volte mista a sfiducia, ma è sempre stata più forte la spinta ad andare avanti, nella convinzione che solo il lavoro su di sé può migliorare il rapporto con se stessi e con gli altri. Negli ultimi anni Maddalena ha definito meglio il suo Metodo ed ha avviato una “Scuola di formazione”, affinché altre persone, oltre a lei, lo possano applicare. Insegno anatomia agli allievi della Formazione ed anche questa è stata per me un’esperienza importante. Ho cancellato dalla mia testa la vecchia visione del corpo umano, spezzettato in un numero infinito di ossa e muscoli ed ho riscoperto un corpo nuovo, una macchina meravigliosa in cui i muscoli si muovono tutti insieme in catene ed esprimono in modo tangibile bisogni e disagi. L’attenzione ai bisogni del corpo è stata la molla per avvicinarmi in modo nuovo anche ai problemi dell’alimentazione. Da anni mi occupo di problemi nutrizionali nei bambini, ma solo di recente ho allargato i miei interessi con lo studio e la pratica del metodo Kousmine, messo a punto dalla pediatra russa Catherine Kousmine, secondo la quale tutte le malattie della nostra epoca, soprattutto quelle degenerative quali i tumori, dipendono da una cattiva alimentazione. Prendersi cura di sé comporta anche mangiare in un modo più sano, per mantenersi più a lungo in salute e “dare vita agli anni, non solo anni alla vita”, come dice la Kousmine. Ho ritenuto importante estendere queste mie conoscenze agli allievi del Centro con alcuni incontri, che sono stati un’esperienza molto stimolante, per l’interesse che gli argomenti hanno suscitato. Ho trovato tanti amici, facendo questo lavoro, persone su cui so che posso contare e che di me accettano pregi e difetti, come io di loro, perché questo lavoro mi ha insegnato ad essere più vera e a mostrarmi per quella che sono, nel bene e nel male, nella felicità e nella tristezza. Ed è così che ora, quando osservo la mia immagine riflessa allo specchio, riconosco il volto e lo sguardo di quella bambina che mi guarda dalle pagine dell’album di fotografie, una bambina che ho imparato a proteggere ed amare ogni giorno di più.

Sandra Brusa

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