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RIVIDI QUELLA BAMBINA AL MARE…

Pubblicato il . Sezione: Testimonianze

Non credo che la mia vita sarebbe quella che è oggi se non avessipotuto lenire le profonde ferite provocate da una biografia familiaresfortunata. I miei genitori erano troppo distratti dai loro problemiper darmi l’affetto minimo necessario a costruire una personalitàserena.

Mia madre soffre di depressioni da prima che io nascessi. Le sue crisi ricorrenti segnavano, e segnano tuttora, lunghi periodi diassenza domestica: tali periodi spesso coincidevano coi ricoveripsichiatrici, in passato ampiamente utilizzati dalla medicina, e talora invece significavano tempi di rabbia, di liti e di pianti, insieme alunghe degenze nel letto di mia madre in casa.Mio padre faceva il frigorista e in più si occupava di politica; perquesto era alquanto rispettato, ma come genitore e marito era menoonorabile. Noi figlie, mia sorella ed io, ci siamo fatte compagniasalvandoci dal disastro: abbiamo condiviso giochi e lavoro domestico,ceffoni, guai e momenti di apparente normalità, riportando tuttaviatracce indelebili di quel passato comune.A me venne la scoliosi.In una delle rare foto della mia infanzia, ripresa un po’ dall’altorispetto alla sua statura, è ritratta una bimbetta di cinque anni dallosguardo imbronciato, col costume da bagno, in piedi su un moscone.Ha il capo grande rispetto al corpo magro, le ginocchia sono valghe, ipiedi piatti.Sua madre a volte la porta alla mutua a fare delle visite. La bambinaricorda il grigiore degli ambulatori, con gli arredi di alluminio e ilpavimento di linoleum verde, sempre uguali. In mutandine e canottieradeve mostrare come cammina. Che male ci sarà poi a camminare?- si chiede la bambina – sentendo su di sé gli occhi di sconosciutigiudici dal camice bianco, che le prescrivono prima cicli di raggiultravioletti per il rachitismo, poi la ginnastica correttiva per laschiena storta.All’Ambulatorio Salus gli arredi erano quantomeno diversi: se liricorda chiaramente per le interminabili attese nella sala d’aspetto,dove negli anni ‘60 si avvicendarono grandi masse di bolognesi. La solacosa piacevole era che l’accompagnava l’adorabile nonno, l’unicapersona tranquilla della famiglia: quei gesti pacati, quel tono di vocedolce glielo facevano preferire a chiunque altro.Ma con l’entrata in palestra si smetteva di essere bambini: bisognavadiventare un po’ soldati, e i soldati, si sa, devono marciare. Al postodel fucile i bastoni di legno, su, giù, dietro le spalle, davanti.Numeri da raggiungere, dieci volte di questo, venti di quello. Eratutto molto faticoso, comprese le esercitazioni alla spalliera e leflessioni.Nonostante tanti sforzi, la bambina deve mettere il reggispalle, che famale, e per di più sicuramente si vede sotto il grembiule di scuola.Il senso di inadeguatezza si acuisce, e allora, come si può piacere,così conciata, a quel bambino seduto nel banco dietro di lei? Come senon bastasse, le mettono gli scarponi ortopedici grazie ai quali“corregge” rapidamente il difetto ai piedi: prima li ruotava versol’esterno, nel giro di pochi mesi li porta immancabilmente all’interno.Dopo l’apparecchio ai denti e il nuoto “che fa bene” arriva, con losviluppo, una tregua. La ragazzina si guarda allo specchio e nota diavere le costole di destra più alte di quelle di sinistra, ma pensa checon gli abiti alla moda nessuno se ne accorgerà. In casa continuano lecrisi, meglio uscire il più possibile… Passano alcuni anni, densi dieventi, con la contestazione, i viaggi, gli amori, l’uscita di casa.Verso i venticinque anni la schiena comincia a dolere in modofastidioso, persistente; il collo spesso si inchioda, l’umore gli vadietro. Ma dopo il nuoto, l’aerobica e lo yoga il dolore continua.Dietro consiglio di un amico decide infine di iscriversi ad un corsosettimanale di “Psicomotricità-Antiginnastica” tenuto da MaddalenaMonari. Interrrogandomi sul significato di quelle parole, impressesulla targa del vecchio “centro”, ne varcai la soglia , per la primavolta, dieci anni fa.L’incontro con il metodo delle possibilità, l’invito emesso da una vocesoave a fare degli esercizi“antimilitareschi” mi provocarono, sulle prime, un certodisorientamento: si trattava di un lavoro fisico totalmente diverso daquelli precedenti, al termine del quale, stranamente, stavo molto bene.Togliendo le palline da tennis da sotto i glutei, dopo aver svoltodiligentemente l’esercizio richiesto, provai una sensazioneindimenticabile di liberazione e di espansione, un piacere inaspettatoche scaturiva dai muscoli stessi al liberarsi, distendendosi, dallatensione. D’altra parte però il mio approccio era quello di sempre:come da bambina affrontavo un duro lavoro, svolto in solitudine efondato sullo sforzo e l’obbedienza, il che significava associare ildolore al piacere, il controllo all’abbandono, il carcere alla libertà.Seguii per qualche anno un gruppo settimanale, all’interno del qualeiniziai un lavoro graduale sulla struttura corporea: dopo qualche tempocominciai così a percepire lievi modificazioni nei miei gesti e nellepiccole cose della vita quotidiana. In effetti da qui cominciò il miolavoro.Una signora nel gruppo aveva fatto notare come la massaia contribuisca,pur in modo involontario, all’oppressione storicamente esercitata su dilei quando, per esempio, porta un’unica grande pesante borsa dellaspesa anziché due, più equilibrate nel peso, e come questa faticarisulti in ogni caso ancor più gravosa per l’ansia e la fretta chetroppo spesso vi si aggiungono.Sperimentai allora che ansia e fretta si fanno sentire quando puoiascoltare come si portano quei pesi: contraendo i muscoli più delnecessario già, da dentro le spalle, le braccia rigide funzionano comeuna leva che aumenta il carico anziché essere semplici vettori di unaforza muscolare meglio distribuita a partire dalla schiena.Quella fu l’epoca in cui cominciai a risparmiarmi nel lavoro domestico.Mi resi conto che i miei movimenti nella quotidianità somigliavanoenormemente a quelli di mia madre e questo, oltre a contraddire le mieidee femministe, non mi piaceva. I gesti rapidi e scattanti che avevanocontraddistinto mia madre nei momenti di ripresa dalle crisi, cessaronocosì di essere l’unico schema di movimento (domestico) possibile, purrestando il principale. L’immersione nel contatto con gli altri membridel gruppo mi portava lontano, verso dimensioni diverse dal dover fare,che rimanevano impresse per qualche tempo nel mio immaginarioarrecandovi nuovo materiale.Ricordo un autunno durante il quale, quando salivo in automobileall’uscita dal gruppo settimanale, sentivo la spalla sinistra dolorantee accartocciata e tale percezione, spesso associata ad un senso dioppressione, mi accompagnava anche nei giorni successivi. Il mal dischiena però era ormai un ricordo, mentre il mio corpo aveva iniziato ascrivere il suo libro raccontandomi, nei primi capitoli, la sua storiapiù recente. Io potevo leggerne qualche pagina, ma poi chiudevo quellibro richiamata al presente dalla realtà.Il gruppo settimanale è stato come tante piccole gocce che hanno pianpiano diluito una vernice molto densa, un lavoro lento ma continuo cheogni volta mi rammentava il bisogno, altrimenti dimenticato, dirilassarmi e che mi dava inoltre la possibilità di usciredall’isolamento antico della ginnastica correttiva. Con me c’eranoaltre persone, non più anonime, con le quali mi potevo confrontare,possibili compagni di gioco o di lavoro che conoscevo nelle versioniautentiche, quelle del tocco di una mano o di un abbraccio o di unballo scatenato.Con gli stages la lettura del mio libro è entrata nel vivo: lentamentema con coraggio, ho cominciato a sfogliarne le pagine più dolorose.Spesso, durante il lavoro, affioravano nella mia mente dei ricordi,flash del passato, oppure delle immagini nuove, a cui associavo lasensazione emotiva che stavo provando: rividi quella bambina al mare, eper lei piansi più volte. La sua deformità mi faceva male, mi sarebbepiaciuto essere stata bella, allegra e pasciuta, mi vedevo propriobruttina; d’altronde mi ricordai anche che qualcuno, un professorone diodontoiatria, me l’aveva detto che ero un mostro. Ho soffertomolto per poter guardare quella bambina con altri occhi, ma quando cisono riuscita ho capito quanto avevo introiettato quel giudizio che miaveva reso, tra l’altro, un soggetto difficilmente fotografabile pertutta la vita. Sentivo che non avrei potuto essere diversa, avevoancora lo stesso corpo tutto contratto che aveva quella bambina, cometanti elastici che si attorcigliano e si sovrappongono tra loro creandonodi e parti dure, e che si tendono ulteriormente negli arti superioried inferiori. A poco a poco trovai le ragioni di tanta tensione perché,man mano che la mollavo, durante il lavoro, rivivevo dolori antichi, avolte dimenticati, e tuttavia trascritti nel libro del mio corpo. Unavolta mi rividi nella culla, in una stanza di una casa che non esistepiù, mentre sgambettavo, poi un’ombra, qualcuno che si stavaavvicinando e all’improvviso, fortissima, una sensazione disoffocamento. Non so se mia madre abbia tentato di soffocarmi davvero,oggi non importa, l’importante è stato aver bisogno di respirare:l’informazione trasmessa dal corpo durante il lavoro muscolare mi hapermesso di comprendere, nel tempo e da dentro, perché la mia bambinaera così magra e aveva le costole sollevate. Il mio diaframma eracompletamente bloccato, questo mi faceva sentire sospesa, ansiosa ebisognosa dell’approvazione altrui, mentre prendere respiro significavastare dentro di me, osservare ciò che mi circondava partendo dallacertezza che io c’ero, per porre fine allo “stile acciuga” che mi avevasempre caratterizzato. A tutto questo si associava l’emergere di ungrande bisogno di affetto e di tenerezza, mai ricevuti da piccola, chepotevo soddisfare con i miei pari, coi membri del gruppo dopo, nellavoro di relazione. Ho vissuto incontri bellissimi, degni di un film:vicinanze nel dramma che ci hanno reso solidali, nutrimento affettivoche è andato a colmare dei vuoti, fino allo scambio e al poter darespontaneo, quando il dover dimostrare di essere “in un certo modo” hacominciato a non interessarmi più. Ho vissuto momenti di grandefelicità, di immersione totale nell’oblio, di abbandono al fluire deltempo, dei colori e delle sensazioni.Il libro del corpo, quando si svela, è ricco di storie che ributtanoinaspettatamente all’indietro, al momento in cui le emozioni siimprimono su un essere in via di sviluppo, che non potendo ancoradistinguere se stesso dagli altri, riporta a sé tutta la realtà. Miritenevo l’unica responsabile di quello che succedeva, non potevodelegare a nessun altro, di cui potessi fidarmi, possibilità diverse,dovevo essere brava e tesa per far andare bene il mondo. Questimeccanismi avevano coperto ciò che di più vero mi andava rivelando ilcorpo: la solitudine, la rabbia e il disagio che provavo durante illavoro di allungamento dei muscoli e che avevano contrassegnato la miainfanzia.Una volta, dopo un lavoro sulla bocca, sentii che il mio viso sicontorceva come quando, da giovane ragazza, vidi la “paralisi isterica”di mia madre: fu una delle sue tante crisi che in quel caso le provocòil blocco dei muscoli della parte sinistra, evidente, a livellofacciale, soprattutto nella bocca. Il “ghigno” che avevo anch’io, e chetanto deturpava il mio sorriso, esprimeva allora, oltre al dolore perquella sofferenza, la beffa di un destino di cui, oltretutto, misentivo inconsciamente colpevole, trasferendo sul mio viso e dentro dime il dramma di mia madre. Non importa se sei già adulto, quando ciòche succede ti tocca nel profondo come quando eri bambina.Quel giorno rivissi anche, attraverso la memoria del corpo, i dueinterventi chirurgici che avevo subìto, entrambi nella parte sinistradella bocca: uno alla mandibola inferiore, l’altro nella mascellasuperiore; si trattava di episodi che facevano parte, in questo caso,della mia anamnesi personale, senza essere per questo meno dolorosi.Precipitai in un cupo silenzio e quella notte feci sogni strani che nonrammento, ma il mattino dopo, con la faccia “caduta”, la boccafinalmente chiusa in maniera naturale, mi ripresentai al gruppo epacatamente raccontaicosa mi era successo. I ricordi del corpo non si possono mistificare,perché emergono, intensissimi, come quando gli eventi lasciano la loroimpronta; la mente può giocare per adattarsi a soddisfare in manieradeviata i bisogni inappagati, mentre il corpo grida tutto il suodisagio, senza mezzi termini. La mia bocca era la mia storia:mostrandomi i suoi dolori, cominciava ad assumere una sua dignità.Avrebbe voluto un cibo che non le era stato dato, avrebbe desideratosorridere, ma non le era stato permesso, ma ora poteva ”trovare unacasa” in un viso lavorato, godere di questa scoperta così riposante, epoi andare in giro per il mondo, guardare, ridere, cantare. Molte partidel mio corpo, e non solo la bocca, mi hanno svelato via via i lororicordi, attraverso le sensazioni e le emozioni che ho rivissutodurante il lavoro. Per parecchio tempo ho avuto bisogno di piangerelacrime disperate, per le quali pareva non esserci sollievo come quandoero bambina, ma dopo, negli esercizi di contatto, mi placavo. Spessotrovavo braccia accoglienti che mi consolavano, occhi comprensivi chelegittimavano il mio dolore, dolci carezze che mi scaldavano.La parte lavorata, dopo la catarsi affettiva, entrava, carica dienergie, nella relazione con gli altri, attraverso le “verifiche dimovimento”. Muovere e percepire parti del corpo, prima bloccate, nelmomento dell’incontro con le persone è fonte di emozioni intense legatealla scoperta di nuove possibilità di partecipazione. Un pezzetto inpiù, un tassello ulteriore si andava così ad inserire nel mosaico delcorpo, portandosi dietro il suo giovane bagaglio di esperienzerelazionali.Dopo tale momento, le nuove parti lavorate possono inserirsi nelloschema corporeo in maniera più significativa.Mano a mano che il lavoro scendeva sempre più nel profondo, miaccorgevo di poter disporre di tutte le mie facoltà nella loro massimapotenza. L’attenzione che rivolgevo al gruppo, ad esempio, siintensificò enormemente: come sotto l’effetto di una pozionemiracolosa, tutto e tutti cominciarono ad appassionarmi, ognuno di loroaveva qualcosa da insegnarmi e potevo ascoltarli come mai primad’allora.L’essere così dentro me stessa non escludeva affatto il poter esserecon gli altri. Se nei primi stages ero andata alla ricerca del miosimile e del familiare, delle coetanee del tipo mentale e nevroticocome me per costruire alleanze e rivalità, dopo, col tempo, ho avuto lafortuna di incontrare anche il diverso. Da timida e insicura, tesa econtrollata, come se mi sentissi sempre osservata e giudicata, sonodiventata, poco a poco, tranquilla e aperta. Questo è ciò che succedequando non hai più bisogno di sentirti guardata per esistere. Non hopiù avuto paura di esprimermi a livello affettivo, non ho piùsussultato quando mi si avvicinava il conduttore del gruppo e non hopiù calcolato quando e quanto lo faceva con me in confronto agli altri.Mia madre, poveretta, si dannava a vestire me e mia sorella in modouguale, a picchiarci altrettanto per non fare differenze, ma quando hosentito che non è un reato avere delle preferenze e che ognuno ha perquesto i suoi perché, ed ho pensato inoltre che era lei, mia madre, laterza di tre sorelle, ad avere proiettato le sue paure di esclusione sudi me, ho potuto smettere di spendere energie a controllare cosa miveniva riservato. Soprattutto ho iniziato a chiedere aiuto se ne avevobisogno.Il lavoro di gruppo, condotto con metodo non direttivo da Maddalena, èstato il mezzo della mia crescita: nella relazione con gli altri,uguali e diversi, nella comunanza dei momenti felici così come diquelli drammatici, nelle storie di vita che ognuno di noi ha regalatoai vari componenti, nelle dinamiche che abbiamo potuto osservare mentrele vivevamo, si è costruita la complessità sociale.Ho trovato spesso questi termini quando studiavo per l’esame di“Sociologia dei gruppi” all’Università. “L’individuo nel gruppo èqualcosa di più di un semplice atomo, eppure conserva la sua identitàsenza disperdersi come nella società. È un livello intermedio direlazione”, capace di fornire una grande ricchezza di stimoli,probabilmente maggiore di quella della relazione terapeuta-paziente. Laforza e l’energia che si sviluppano all’interno del gruppo non sono lapura sommatoria di quelle individuali, ma qualcosa di diverso.Ecco che se il gruppo “gira bene”, se esso stesso cresce come gruppo,questo potrà andare a costruire un pezzetto significativo di realtà chesostiene i singoli anche fuori da quel laboratorio.Ho fatto parte di un gruppo chiamato “il combinato” per diversi anni:in alcuni momenti si è trattato di una combinazione veramente moltofelice di elementi umani, insieme ai quali ho elaborato e condivisotemi e tesi che nascevano dal lavoro sul corpo e non a tavolino.A partire da questo, il livello di profondità e di potenza dellatrasformazione di cui io, ma non solo, ho potuto usufruire, è statotale da poter dare una vera svolta ad un processo che, lentissimo, erainiziato dieci anni prima. Dallo stages residenziale di Ischia del ‘93in avanti, ho iniziato a godere di uno stato di grazia, di allegria edi serenità davvero insperati.Contemporaneamente si è drizzato il busto, è aumentato il seno, si èrilassato il viso e la bocca, si è riempito lo scarno. Lo sguardo si èaddolcito, l’approccio si è fatto più spontaneo, il movimentoarmonioso.La mia apertura dal punto di vista fisico ha coinciso con quellamentale, la quale mi ha permesso di lasciare indietro alcuni fantasmi,senza voltarmi più. Ho visto la mia verità di bambina che aveva unimmenso bisogno di amore, e non ho scusato i grandi, pur vedendo leloro verità. Da quando ho accordato il diritto di cittadinanza al miodolore, posso riascoltare quella bimbetta che è rimasta dentro contenera comprensione verso me stessa ma anche verso gli altri e,nonostante le evidenti ferite, godere dell’immenso piacere di vivere lamia vita.

Lilia Collina

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